L’epidemia dimenticata

Quasi due milioni di morti all’anno, circa 5 mila al giorno, soprattutto tra poveri e malnutriti, un’incidenza globale che sta crescendo dell’1 per cento all’anno e 2 miliardi di persone contagiate, pari a un terzo della popolazione globale. Sebbene il 50 per cento delle aree colpite dall’emergenza tubercolosi abbia a portata di mano gli obiettivi di controllo e cura, la malattia è lontana dall’essere debellata e se lasciata senza controllo nei prossimi 20 anni ucciderà 35 milioni di persone. Le piaghe più evidenti sono l’Africa, dove c’è l’incidenza più alta a causa dell’associazione Tb/Hiv (29 per cento di tutti i casi), l’Asia con la metà dei circa 9 milioni di nuovi casi nel 2004 e l’Europa dell’est, che fa registrare la maggior parte dei nuovi casi di tubercolosi multiresistente (Mdr-tb). Ma neanche nei paesi sviluppati, tra cui l’Italia, sono esenti da pericoli. Lo dice il rapporto Global Tuberculosis Control 2006 lanciato, insieme a una nuova strategia di trattamento, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) in occasione della Giornata Mondiale per la lotta alla malattia. I maggiori esperti mondiali hanno fatto il punto su diagnosi e controllo al convegno “Tubercolosi, un problema globale” organizzato da Stop Tb Italia, partner del progetto internazionale dell’Oms, che si è svolto il 23 marzo al San Raffaele di Milano. “Gli obiettivi della precedente strategia Oms erano individuare almeno il 70 per cento dei casi contagiosi di tbc e curarne con successo l’85 per cento entro il 2005”, spiega Daniela Cirillo, responsabile dell’Unità patogeni, batterici emergenti dell’ospedale San Raffaele e membro di Stop Tb. “Ad oggi possiamo dire che si è riusciti meglio nel secondo obiettivo che nel primo: in molte zone infatti è stato individuato solo il 53 per cento dei casi e di questi sono stati trattati l’82 per cento”. Un buon risultato, anche se si tratta di un successo a macchia di leopardo. Tre regioni su sei, cioè le Americhe, le regioni a Sud Est dell’Asia e del Pacifico Occidentale ce l’hanno fatta e addirittura 26 nazioni hanno raggiunto l’obiettivo un anno prima del termine prefissato, tra cui le Filippine e il Vietnam. Altri cinque paesi (Cambogia, Cina, India, Indonesia e Myanmar) attendono la conferma del conseguimento dell’obiettivo entro la fine del 2006. “Le difficoltà nell’individuare i casi sono dovute alle carenze nei laboratori, alla mancanza di strutture e di personale qualificato”, continua Cirillo. “Nel Mozambico per esempio esiste un unico laboratorio che può fare la coltura ma non tutti gli abitanti possono permettersi di arrivarci spendendo 10 dollari, visto che il reddito pro capite annuo è di 100. Poi ci sono i casi in cui, come nell’Europa dell’est, le strutture ci sono ma sono inadeguate e il personale non riesce a individuare le forme resistenti ai farmaci standard”. Per questo la nuova strategia Oms, pur restando ferma sul Dots (Directly Observed Treatment, Short-Course), si propone di affrontare le sfide della Mdr-Tb e della Tb/Hiv, contribuire a rafforzare il sistema sanitario, coinvolgere tutti i centri di cura e promuovere e potenziare la ricerca. “Altra novità è dare potere a pazienti malati e alle comunità”, spiega Cirillo. “La terapia Dots è standardizzata e sempre uguale per lungo tempo. Spesso il paziente salta certe dosi, la interrompe, la divide con altri familiari malati o addirittura se la vende. Perciò viene applicata sotto osservazione diretta dei medici e degli infermieri. Ma una volta che il paziente è fuori dall’ospedale, chi lo controlla? Dando una piccola formazione e incentivi si può creare un gruppo di volontari che va a casa del malato e lo controlla mentre prende i farmaci”. Ma la tbc non colpisce soltanto i paesi poveri. In Europa nel 2003 sono stati registrati 439 mila nuovi casi e 67 mila morti. Preoccupante la situazione dell’ex Unione Sovietica, dove l’incidenza è quasi di 100 persone su 100 mila. Altro fronte caldo sono le metropoli, come Parigi, Rotterdam, Barcellona e Londra che presentano un’incidenza della tbc superiore di 4-6 volte a quella del resto dei rispettivi stati. In Italia si registrano ogni anno 6 mila nuovi casi a cui i medici sembrano non essere preparati. “E’ una malattia dimenticata e c’è un grosso ritardo diagnostico: da 30 anni si dice che non è più un problema e ciò ha fatto abbassare la guardia e la formazione di nuovi specialisti”, spiega Luigi Codecasa, responsabile del Centro Regionale di riferimento per la Tbc dell’Istituto Villa Marelli dell’Ospedale Niguarda di Milano. “Il fatto che sia rara fa si che i medici non la sappiano distinguere e la confondano con semplici bronchiti e polmoniti”. Spesso sono anche gli immigrati a portarla e curarli è difficile per le loro diversità culturali o perché non hanno i mezzi per permettersi la cura. “Ma la vera bomba sono le carceri dove convergono in condizioni di sovraffollamento immigrati e sieropositivi. Qui c’è un’incidenza 20-30 volte maggiore di quella che sta fuori e rischiano molto gli operatori delle carceri, che diventano veicolo della malattia”, conclude Codecasa. “Per questo è necessario fare una corretta informazione ai cittadini e anche le autorità devono essere coscienti che senza le opportune cautele la tubercolosi può diventare un serio problema”.

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