Il complesso puzzle dell’origine della vita sul nostro pianeta si arricchisce di un nuovo tassello. Un gruppo di geologi australiani ha infatti annunciato con un articolo su Nature di aver scoperto le tracce di microorganismi vissuti oltre 3 miliardi di anni fa e in un’era geologica – l’archeano – considerata, per le sue condizioni ambientali estreme, del tutto incompatibile con la vita. Questi antichi abitanti della Terra furono probabilmente batteri procarioti, capaci di vivere nel fondale sottomarino in assenza di luce, di ossigeno e di sopportare temperature molto elevate. Si tratta dei più antichi resti di organismi di questo tipo mai rinvenuti, 2,7 miliardi di anni più antichi di quanto si ritenesse finora.
Tutto parte dal ritrovamento di alcuni fossili all’interno di un massiccio di origine vulcanica. Per i ricercatori australiani non c’è dubbio: si tratta di resti di microrganismi cellulari primitivi procarioti, cioè privi della membrana che separa il nucleo e il citoplasma nelle cellule moderne, vissuti 3,2 miliardi di anni fa. Lo spiega chiaramente Birger Rasmussen autore dell’articolo e geofisico della University of Western Australia: “Sebbene sia difficile dire quale fosse il metabolismo dei microbi fossilizzati sulla base della loro morfologia, dalla loro forma è possibile ricavare informazioni molto importanti”. E aggiunge: “Studiando l’aspetto dei filamenti siamo riusciti a capire che si trattava di microrganismi. La loro morfologia sinuosa, l’uniformità longitudinale e l’aspetto attorcigliato sono infatti caratteristiche che non si riscontrano in microstrutture non viventi”.
Poi, grazie all’analisi della roccia e al confronto con altri ritrovamenti fossili di epoche posteriori, il quadro si è fatto ancora più chiaro. I ricercatori ipotizzano che i microrganismi (lunghi appena un decimo di millimetro) vivessero ben oltre la zona di penetrazione dei raggi solari, nelle acque bollenti dei fondali vulcanici, sviluppandosi in colonie filamentose intrecciate come “spaghetti” arrotolati e aggrappati alle crepe delle rocce dove la corrente sottomarina li riforniva delle sostanze essenziali alla loro sopravvivenza.
“La grande profondità dell’acqua – oltre 1000 metri – e lo strato sedimentoso che li ricopriva ci inducono a pensare che questi organismi primitivi fossero riusciti a sviluppare un sistema per produrre energia senza ricorrere alla luce servendosi di processi metabolici anaerobici, cioè in assenza di ossigeno, dal momento che l’ambiente ne era del tutto privo”, spiega Rasmussen. Il metabolismo di questi microrganismi faceva invece ricorso, con grande probabilità, allo zolfo disponibile in abbondanza nel fondale marino.
La scoperta di Rasmussen e dei suoi colleghi aggiunge insomma un nuovo tassello al puzzle dell’era geologica più remota del pianeta. E sebbene non rappresenti una prova definitiva della teoria che la vita sviluppatasi negli abissi marini e in un habitat idrotermale sia antecedente a quella fotosintetica, offre un’ipotesi interessante sui primi esseri viventi del nostro pianeta.