L’Unione fa la forza

Una rete europea di istituti di sanità pubblica impegnati nella sorveglianza delle malattie rare. È Nephird (Network of european public health institutions on rare deseases), un progetto finanziato dalla Commissione europea e coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss) nato monitorare una classe di pazienti molto particolare. Quella affetta da patologie che colpiscono solo una piccola percentuale della popolazione mondiale e che per questo non sono al centro dell’attenzione né dei medici, che spesso non sanno riconoscerle, né delle aziende farmaceutiche, che non investono nella realizzazione di medicinali. “Sette malattie (la sindrome di Prader-Willy, la neurofibromatosi di tipo I, la myasthenia gravis, l’acidenia proponica, la sindrome di Rett, la riduzione degli arti e la sindrome di Cornelia De Lange), faranno da prototipo alla delineazione di iniziative congiunte a livello europeo”, spiega Domenica Taruscio, responsabile del Centro nazionale per le malattie rare dell’Iss e coordinatrice del progetto che ha riunito lo scorso 10 febbraio a Roma presso la sede dello stesso Iss esperti internazionali di genetica, sanità pubblica, sociologia e bioetica insieme al vicepresidente dell’Associazione europea dei pazienti (European Association on Rare Disorders). “Tre gli obiettivi fondamentali: raccogliere dati epidemiologici per conoscere la frequenza e la distribuzione delle malattie selezionate, indagare sulla qualità di vita dei pazienti in tutti i paesi partecipanti e valutare la qualità dei servizi erogati per queste stesse patologie”. Che rappresentano appena il 10 per cento di tutte le malattie conosciute e che colpiscono meno di cinque individui ogni dieci mila abitanti dell’Unione europea: in tutto 20-30 milioni di persone, di cui circa 500mila in Italia. Il problema fondamentale sta proprio nella loro rarità, da cui deriva la scarsa disponibilità di conoscenze scientifiche e mediche. Di loro, infatti, oltre ai nomi, circa sei-sette mila, e agli effetti, quasi sempre invalidanti, si sa solamente che nel 90 per cento dei casi l’origine è genetica, ma si è ancora lontani dal poterle diagnosticare, prevenire e curare. E il fenomeno somiglia a quello di un cane che si morde la coda: pochi pazienti, infatti, significano anche pochi “clienti”. Non abbastanza perché l’industria farmaceutica possa concentrarsi sulla ricerca dei farmaci cosiddetti orfani, in quanto privi di sponsor. Per avere un’idea delle risorse necessarie basti pensare che l’immissione di un farmaco sul mercato è preceduta in media da 7-12 anni di ricerca e da un investimento di 800 milioni di euro. Il risultato è che oggi esistono medicinali che curano solamente 300 malattie rare, lasciandone migliaia ancora senza rimedio. Qualcosa, tuttavia, si sta muovendo. “L’Unione Europea”, afferma Taruscio, “ha approvato con il Regolamento 141/2000 la “European orphan medicinals product regulation”, che ha portato alla nascita di un comitato per i farmaci orfani all’interno dell’Agenzia europea per i farmaci (Emea) e all’erogazione di incentivi di vario tipo, tra cui la concessione di un’esclusività di mercato della durata di 10 anni alle case farmaceutiche impegnate nella ricerca dei prodotti orfani”. I risultati non si sono fatti attendere: fino al febbraio 2003 129 prodotti hanno ottenuto lo status di farmaci orfani e sette, tra questi, l’autorizzazione commerciale. Guardando nello specifico alla legislazione italiana, poi, uno passo avanti significativo è stato compiuto col decreto ministeriale 279 del 18 maggio 2001, che prevede l’istituzione di una rete nazionale dei presidi specializzati nelle prestazioni diagnostiche e terapeutiche. E tuttavia, non basta. “Siamo purtroppo poco attrezzati contro le malattie rare”, dichiara Bruno Dalla Piccola, docente di genetica medica presso l’università di Roma “La Sapienza”. “Manca gran parte degli elementi indispensabili per poter effettuare un inquadramento clinico epidemiologico: i criteri di valutazione diagnostici, i centri di qualità, gli esperti e, soprattutto, le reti di collaborazione”. Senza queste infatti “si rischia di replicare o di mettersi in concorrenza con iniziative già esistenti, come già avviene nei centri di analisi sparsi sul territorio che, privi di collegamenti tra di loro, studiano sempre e solo gli stessi 50 geni. Occorre invece produrre idee differenziate, coordinarle e smistarle”. Il sospetto, secondo il genetista, è che anche Nephird si collochi in questa prospettiva vista l’esistenza di un altro progetto europeo dedicato alle malattie rare: Orphanet. “Si tratta di un database dinamico sorto in Francia”, spiega il docente, “che presenta il vantaggio fondamentale di applicare le informazioni ai singoli paesi. Di poter individuare subito, cioè, i centri di ricerca, i laboratori diagnostici e le associazioni di supporto presenti nella propria nazione, nonché tutte le informazioni disponibili su oltre mille malattie rare, sui farmaci orfani a esse relativi, sui progetti di ricerca in corso”. Orphanet, disponibile via Internet già dal gennaio 1998, contiene, nella sua versione attuale, i dati relativi ai servizi offerti in Francia, Germania, Belgio, Italia e Svizzera.”Ma Nephird è un’altra cosa”, ribatte Taruscio. “Non basta infatti solo conoscere le malattie, i laboratori, le strutture e gli operatori sanitari. Occorre portare in primo piano i bisogni dei pazienti e delle loro famiglie, indispensabili per la programmazione e la pianificazione dei servizi sanitari. In questo senso, Nephird intende promuovere principalmente l’epidemiologia dei pazienti e delle loro esigenze rispetto alla classica forma di epidemiologia delle malattie”. E proprio per questo, i pazienti saranno chiamati a svolgere un ruolo attivo, grazie al coinvolgimento delle associazioni che aiuteranno i ricercatori a raggiungere gli obiettivi fissati.

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