Mentre in Italia riprende corpo la polemica sulle bibite zuccherate, dopo che il ministro Balduzzi ha proposto di tassarle insieme a quelle addizionate di edulcoranti, su Nature è stato pubblicato uno studio che prova a mettere un punto fermo sull’annosa questione per cui la longevità sarebbe strettamente correlata alla restrizione calorica. Con risultati piuttosto in controtendenza: infatti, secondo i ricercatori del National Institute on Aging (Nia), uno degli istituti degli Nih statunitensi, ridurre le calorie non allunga la vita, almeno nelle scimmie.
Dopo aver messo a dieta stretta (meno il 30 per cento di calorie rispetto agli animali di controllo) alcune scimmie Rhesus per 23 anni, gli scienziati hanno sì osservato alcune differenze tra i due gruppi – un miglior profilo glicemico e lipidico per le scimmie a stecchetto e per gli animali messi a regime in tarda età – ma non quella per cui era stato disegnato lo studio.
È intorno agli anni Ottanta che hanno cominciato ad accumularsi una serie di evidenze scientifiche, più o meno riproducibili, secondo cui mangiar meno significava vivere più a lungo. Così sembrava almeno per alcuni lieviti, mosche, vermi e topi, nei quali la restrizione calorica era associata anche a una minore incidenza di cancro. Anche se i risultati non sono sempre stati così netti: nei topi selvatici, infatti, mangiar meno non significava vivere più lungo, come scrive il New York Times.
Ma topi, lieviti e vermi erano animali troppo lontani dall’essere umano per poter immaginare di trasferire – seppure con tutte le limitazioni del caso – i risultati delle diete ipocaloriche anche alla nostra specie. E avevano aspettative di vita troppo distanti dalle nostre. Motivo per cui furono iniziate le ricerche sulle scimmie.
Nel 2009 cominciarono ad arrivare i primi risultati di uno studio durato vent’anni condotto sui primati. E secondo i ricercatori del Wisconsin National Primate Research Center (Wnprc), a capo dei lavori, quanto detto in passato per topi e vermi valeva anche per le scimmie: mangiare meno allungava la vita. In particolare, ricorda Nature, gli animali a dieta morivano meno di vecchiaia rispetto a quelli non a regime: 1 per cento contro il 37 per cento. E allora, i nuovi risultati del Nia come si spiegano?
A rendere ragione delle differenze tra i lavori del Wisconsin National Primate Research Center e quello del National Institue of Aging è la struttura degli studi. Le diete adottate sono infatti piuttosto diverse per contenuto di nutrienti: per esempio, in quella del Wnprc c’era oltre il 28 per cento di saccarosio mentre in quella del Nia lo zucchero è presente solo per il 3,9 per cento, la prima poi prevedeva antiossidanti e olio di pesce. E ancora: gli animali controllo del Wnprc potevano mangiare a dismisura, mentre quelli del Nia ricevevano porzioni prefissate.
Senza contare che alcuni decessi tra le scimmie del primo studio non furono conteggiati e ignorate perché non ritenute correlate all’età dagli autori, e che gli animali stessi erano diversi: nel primo caso si trattava di esemplari tutti provenienti dall’India, nel secondo di primati cinesi e indiani.
Al di là delle differenze tra le due ricerche, che non li rendono affatto paragonabili, sembrerebbe che siano più la genetica e la composizione delle calorie assunte a pesare sulla longevità, come spiega Don Ingram, che alla fine degli anni Ottanta disegnò lo studio del Nia: “Quando abbiamo cominciato le nostre ricerche il dogma era che una caloria è una caloria. Credo sia chiaro che il tipo di calorie che le scimmie assumono faccia la grande differenza”. Ma in attesa di ulteriori studi, per ora i ricercatori si limitano a osservare come non ci siano chiare evidenze che una dieta ipocalorica sia un fattore in grado di regolare la longevità, tanto più nell’essere umano.
via wired.it
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