Mi impiego ma non mi spezzo

Il mercato del lavoro in Europa è oggi caratterizzato da una forte frammentazione. Anche se la situazione varia da Paese a Paese vi è una generale tendenza alla proliferazione di nuove forme di lavoro. Il rapporto di lavoro di tipo tradizionale è ancora prevalente ma lo sviluppo dei lavori cosiddetti atipici appare inarrestabile e investe, sia pure in misura diversa, tutti i settori dell’economia. Lo sviluppo del mercato del lavoro europeo negli anni Novanta è stato caratterizzato da cambiamenti significativi sia nel settore privato che pubblico. Cambiamenti che non sempre hanno avuto un impatto positivo sui lavoratori. In verità, gli sviluppi nell’economia e nella competitività internazionale hanno dato ai lavoratori la sensazione di un bisogno crescente di maggiore flessibilità, sia in termini di professionalità sia in termini di organizzazioni e lavoratori coinvolti.La maggiore flessibilità è un’esigenza prima di tutto delle imprese, ma in una certa misura risponde anche a domande espresse dai lavoratori.

Fra i diversi modi di raggiungere la flessibilità, quella contrattuale – come part-time, tempo determinato, lavoro interinale, outsourcing, per nominare solo le formule più note – ha avuto un incremento ingente negli ultimi dieci anni. In più c’è stato un uso della “flessibilità del posto di lavoro”, grazie al quale il lavoro da casa o il telelavoro sono diventati lentamente, ma in maniera salda, una componente considerevole dell’impiego delle risorse umane. In aggiunta a tutto questo, c’è il crescente impatto dell’auto-impiego o meglio del falso auto-impiego, persone cioè che lavorano in condizioni simili a quella di normali impiegati ma che non hanno lo status cruciale di impiegato e la protezione ad esso correlata.Questo stato di cose ha indebolito non solo la posizione dei lavoratori ma anche in un certo modo quella dei sindacati. Molte ricerche hanno infatti rilevato come l’aumento del lavoro temporaneo abbia portato a un decremento delle iscrizioni ai sindacati. Una situazione che può giustificare l’iniziale ostilità degli stessi sindacati nei confronti di queste nuove forme di lavoro.

Ora però questo atteggiamento ha lasciato spazio a una presa di posizione di responsabilità da parte delle organizzazione sindacali sia a livello nazionale che europeo. L’impegno per la “flessibilità sicura” ora prevale.Un impegno europeoIn ogni caso, il nuovo scenario richiede al sindacato di estendere la sua capacità di tutela per recuperare il controllo del mercato del lavoro e contrastarne la precarizzazione. Questa ricerca non può prescindere dal contesto europeo. Per quanto non si possa parlare in senso proprio di un mercato europeo del lavoro se non per una fascia molto ristretta di lavoratori, è evidente che il processo d’integrazione europea condiziona le scelte nazionali in misura tale da fare dell’Unione il livello pertinente per la definizione, almeno in termini di indirizzo e di linea guida, anche delle politiche del lavoro.

È sulla base di questo assunto che la Confederazione Europea dei Sindacati (Ces) ha sviluppato in questi anni la sua iniziativa da un lato per ridare centralità ai temi dell’occupazione e del lavoro nell’ambito dell’Unione, dall’altro per promuovere in alternativa alla pura e semplice deregolazione dei rapporti di lavoro una modernizzazione del mercato del lavoro fondata su nuove regole e sull’estensione dei diritti ai nuovi soggetti del mondo del lavoro. I risultati raggiunti fin qui sono indubbiamente parziali ma non per questo meno significativi.

Essi sono la testimonianza di un movimento sindacale che non si limita alla difesa delle posizioni acquisite ma intende diventare un protagonista dei processi di cambiamento.Per quanto possa apparire sorprendente fino a tempi recenti l’Unione Europea non disponeva di competenze esplicite in materia di politiche dell’occupazione e del lavoro. Queste vengono introdotte solo con il Trattato di Amsterdam nel 1997 a seguito di una forte pressione sindacale e in un momento in cui la disoccupazione raggiunge in Europa livelli particolarmente elevati, tanto da indurre il Consiglio europeo ad applicare le nuove disposizioni, in via d’urgenza, prima ancora della ratifica e dell’entrata in vigore del Trattato. È a partire da quell’anno che prende avvio la “strategia europea dell’occupazione” (detta anche di Lussemburgo). Essa consiste nella definizione di obiettivi comuni e di linee guida condivise dagli Stati membri da tradurre in piani d’azione nazionali il cui monitoraggio è affidato alla Commissione e che annualmente sono sottoposti alla verifica del Consiglio dei Ministri. Pur trattandosi solo di un processo di coordinamento tra gli Stati membri, questa strategia ha indotto una migliore focalizzazione della politiche del mercato del lavoro nonché il rafforzamento del loro carattere attivo e preventivo, e ha aperto allo stesso tempo nuovi spazi di intervento al sindacato e alle parti sociali nella loro elaborazione e realizzazione, sia a livello nazionale che europeo. I risultati si sono visti.

Il miglioramento del mercato del lavoro verificatosi in Europa negli ultimi anni con la diminuzione della disoccupazione dell’11 per cento all’8 per cento è certo dovuto a una fase di crescita economica sostenuta, ma anche all’esistenza di politiche del mercato del lavoro capaci di trarre da questa il massimo vantaggio possibile in termini di creazione di nuove opportunità di lavoro. Flessibilità e sicurezzaNaturalmente i risultati sul piano quantitativo non bastano. Essi non ci assicurano che la maggiore occupazione sia anche “buona” occupazione. Molti dati empirici sembrano provare il contrario specie per quanto riguarda i giovani e le donne che continuano a essere tra i soggetti deboli del mercato del lavoro.

Da qui l’iniziativa del sindacato europeo per contestare non la flessibilità in quanto tale ma la sua applicazione unilaterale da parte delle imprese in assenza di adeguate protezioni per i diritti dei lavoratori. Un’iniziativa rivolta sia a influenzare gli orientamenti delle autorità europee sia a sostenere l’attività negoziale con le organizzazioni imprenditoriali che non è rimasta senza eco. Sul primo versante, il concetto di “flessibilità con sicurezza” è stato fatto proprio dalla Commissione e solo un uso disinvolto e strumentale delle sue proposte può permettere di sostenere che dall’Europa venga una domanda di flessibilità senza regole. Quanto ai rapporti con le controparti la Ces, avvalendosi delle disposizioni del Trattato che permettono alle parti sociali di stipulare accordi-quadro sulle condizioni di lavoro, è riuscita a sottoscrivere due intese, l’una sul lavoro a tempo parziale, l’altra sui contratti a tempo determinato (trasformate poi in Direttive) che offrono ai lavoratori garanzie contro abusi e discriminazioni.

Un primo e importante risultato è stato raggiunto con l’accordo (trasformato in Direttiva) sui congedi parentali per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita famigliare. A cui si devono aggiungere altre due negoziazioni: quella sul lavoro part-time e quella sul lavoro a tempo determinato.L’accordo sul lavoro part-time – che ha avuto e ancora ha un impatto notevole sul mondo del lavoro – ha sancito i principi generali e i requisiti minimi correlati a questa forma di lavoro. L’accordo testimonia la volontà delle parti sociali europee di stabilire un contesto generale per l’eliminazione della discriminazione contro i lavoratori part-time, per migliorare la qualità di questo tipo di lavoro, e per favorire lo sviluppo di opportunità di lavoro part-time su base volontaria, sia per gli uomini che per le donne. In modo da contribuire all’organizzazione flessibile dei tempi di lavoro in una maniera accettabile sia per gli impiegati che per i datori di lavoro.

L’accordo riconosce inoltre l’importanza delle svariate opportunità che offre il lavoro part-time: dal suo utilizzo nei casi di preparazione al pensionamento alla riconciliazione della vita professionale e familiare, dal rappresentare un modo per finire gli studi lavorando e frequentare corsi di aggiornamento così da aumentare le conoscenze dei lavoratori e quindi le loro possibilità di carriera. Al contrario l’accordo sul tempo determinato non ha avuto l’obiettivo di promuovere questa forma di contratto. I contratti a tempo indeterminato infatti sono e continueranno a essere la forma generale di relazione fra impiegato e datore di lavoro. Gli obiettivi in questo caso sono stati quelli di aumentare la qualità del lavoro a tempo determinato assicurando l’applicazione dei principi di non discriminazione e stabilendo un quadro generale per la prevenzione gli abusi nell’utilizzo di contratti di questo genere a scapito di quelli a tempo indeterminato.

Sono stati inoltre pianificati maggiori sforzi per facilitare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato a programmi di riqualificazione professionale e per garantire a questi lavoratori le stesse opportunità degli altri. L’accordo inoltre garantisce i diritti collettivi per questa categoria di lavoratori.Ma sperare che questi due accordi garantiscano una soluzione ideale che vada a coprire l’assenza di legislazione a livello europeo in questo campo è un’illusione. Alcuni critiche, tra cui quelle del parlamento Europeo, saranno in futuro prese in considerazione. Ed è questa una delle ragioni principali per cui è prevista una revisione e una rinegoziazione degli accordi dopo che si sarà valutato l’impatto degli stessi sul tessuto sociale. Le parti sociali europee hanno più volte sottolineato l’urgenza di sviluppare un sistema di protezione sociale capace di adattarsi ai nuovi modelli di lavoro e di provvedere a una protezione appropriata per le persone impegnate in questo tipo di lavoro.

È questo un tema su cui l’impegno degli Stati membri deve essere il più tempestivo possibile, anche sotto lo stimolo delle istituzioni dell’Unione europea. Il possibile fallimento di questo obiettivo dovuto a ostruzionismi politici di qualche Stato membro non può essere un motivo accettabile per non provarci. È troppo semplice lanciare campagne di comunicazione per promuovere i lavori atipici nel nome della flessibilità senza poi preoccuparsi di dare agli stessi lavoratori lo status che gli compete e quindi la conseguente protezione sociale.

 Il lavoro non tutelato

Ma il dialogo fra le parti sociali europee non sempre da buoni frutti. È il caso del negoziato sul lavoro interinale, fallito per l’intransigenza dei datori di lavoro. Nove mesi di discussioni su argomenti cruciali non hanno portato a dei risultati accettabili. I datori di lavoro infatti hanno prima di tutto rifiutato di accettare le condizioni salariali applicate all’interno dell’azienda come riferimento per un eguale trattamento dei lavoratori, e secondariamente, di stabilire condizioni ragionevoli per prevenire l’uso abusivo di questa forma di lavoro a scapito di altre. Ignorando, quindi, alcuni principi e diritti acquisiti durante negoziazioni su accordi precedenti. Su richiesta della Ces, spetta ora alla Commissione europea proporre una direttiva che non potrà che ispirarsi all’esigenza di assicurare a questi lavoratori parità di trattamento e di diritti. Un quarto negoziato sulla regolazione del telelavoro è ancora in corso.

La Ces si è impegnata fin dal 1999 nel suo Congresso di Helsinki a “estendere l’approccio lungimirante degli accordi europei sulle piattaforme e le legislazioni a tutte le forme di lavoro non-standard, specialmente quelli, come il telelavoro, che appaiono aumentare in maniera significativa”. L’atteggiamento riluttante dei datori di lavoro ha portato alla realizzazione di maggiori studi e seminari in cui sono state sviscerate le problematiche relative a questo tipo di lavoro. Nel 2001, non appena apparve chiaro che il negoziato sulle agenzie di lavoro interinale sarebbe fallito e subito prima del secondo giro di consultazioni sul telelavoro, l’Unice (Union of Industrial and Employers’ Confederations of Europe – Unione degli industriali e confederazione dei datori di lavoro europei) ha invitato la Ces a negoziare uno documento non vincolante legalmente proprio su questo argomento nel quale si affermava che il telelavoro è “una maniera di lavorare (che deve essere tra l’altro per questo promossa) e non uno status legale”.

La Ces, ferma nella sua convinzione che il telelvoratore debba mantenere o avere uno status di impiegato, ha adottato un atteggiamento prudente per verificare prima se – prima che la negoziazione fosse entrata nel pieno – un accordo volontario sarebbe stato effettivamente messo in pratica a livello nazionale dalle organizzazioni affiliate di entrambi gli schieramenti. Questo atteggiamento è stato senza dubbio influenzato da esperienze precedenti in cui è apparso chiaro come alcuni datori di lavoro nazionali abbiano diverse interpretazioni degli accordi europei e spingano i governi nazionali a implementarli in una maniera non conforme ai principi che hanno ispirato gli accordi stessi. Per quanto riguarda invece il documento che raccoglie il secondo giro di consultazioni voluto dalla Commissione, la Ces è perfettamente d’accordo con tutti i contenuti.

Qui infatti si definisce il telelavoro, la base volontaria del telelavoro e il diritto di ritornare al precedente lavoro, il mantenimento dello status di impiegato, la garanzia per un trattamento egualitario, il diritto all’informazione dei telelavoratori, la copertura dei costi da parte del datore di lavoro, la garanzia per un addestramento specifico, protezione sanitaria e della salute, orari accettabili e appropriati, la protezione della privacy e dei dati personali, contatti regolari con l’azienda e ovviamente le garanzie dei diritti collettivi dei telelavoratori. La Commissione europea ha interpellato le parti sociali per avviare le negoziazioni anche sui “lavoratori economicamente dipendenti”, che – secondo la stessa Commissione – sono quanti portano a termine un compito o garantiscono un servizio all’interno di un’organizzazione con un certo grado di autonomia per quanto riguarda il luogo di lavoro, i tempi e i risultati del lavoro ma che sono interamente o principalmente dipendenti da un punto di vista economico da una singola azienda. Aree di protezione individuate dalla Commissione sono la salute e la sicurezza, l’informazione sui propri diritti, l’accordo sull’orario minimo, il trattamento egualitario per quanto riguarda il salario, le condizioni di lavoro e la protezione sociale.

Poiché la definizione di “lavoratori economicamente dipendenti” è considerata troppo vaga, l’Unice e la Ces hanno raggiunto un accordo sull’opportunità di realizzare maggiori studi e riflessioni su questo fenomeno, in particolare sulle sue dimensioni nei settori rilevanti dell’economia. ConclusioneSi può quindi constatare che sia pure con limiti e difficoltà, va delineandosi a livello europeo, sia sul piano contrattuale che legislativo, un quadro di regolazione delle nuove forme di lavoro. Una profonda discussione a livello europeo su questi temi è necessaria poiché i differenti sistemi legislativi degli Stati membri mostrano quanto possa variare di Paese in Paese il numero di lavoratori inclusi all’interno dei gruppi tutelati dalle leggi sul lavoro e sulla protezione sociale. Un’attenzione specifica deve poi essere data al fatto che molti lavoratori hanno status diversi, anche contemporaneamente.

Le legislazioni nazionali sul lavoro non sono sempre in grado di rispondere in tempo alle sollecitazioni del mondo del lavoro. Una discussione a livello europeo potrebbe in questo senso essere un catalizzatore importante per armonizzare le diverse legislazioni. In ogni caso non può essere messa in discussione la base di protezione sociale raggiunta finora, condizione secondo alcuni necessaria per favorire la modernizzazione. In questo senso rappresenterebbe davvero un passo in avanti se i datori di lavoro finissero di utilizzare le lacune legislative presenti nell’ordinamento europeo e in quelli nazionali europeo per inventare nuove forme di contratto che spesso hanno implicazioni pesanti per i lavoratori. Se invece vorranno continuare su questa strada, allora sarà indispensabile che si siedano al tavolo delle trattative con i sindacati a tutti i livelli così da assicurare che la flessibilità vada a braccetto con una sicurezza appropriata ed effettiva. Regolare le nuove forme di lavoro infatti è un obiettivo fondamentale per il sindacato che si deve confrontare con profondi mutamenti dell’organizzazione produttiva in cui vengono meno, o comunque perdono centralità, la figure sociali del lavoro dipendente che per una lunga stagione hanno rappresentato i suoi punti di riferimento e di forza. Solo scelte innovative sul piano contrattuale e organizzativo che lo mettano in sintonia con i nuovi soggetti del mondo del lavoro, in modo da esprimere aspirazioni e bisogni, possono permettere al sindacato di ricupere rappresentanza e ruolo, per continuare a essere strumento di solidarietà e di progresso.

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