Buone notizie per gli amanti degli uccellini. Lasciare un po’ di cibo nel giardino o nel balcone di casa, per offrire loro un pasto e un ristoro, non li rende dipendenti”dal cibo stesso: gli animali, come ha appena scoperto un gruppo di ricercatori della Oregon State University, lungi dall’abituarsi a trovare la pappa pronta, continuano benissimo a cavarsela da soli. Il problema, discusso in dettaglio sulle pagine del Journal of Avian Biology, è più serio di quel che si possa pensare: “Ci sono ancora molti aspetti sconosciuti sulla questione dell’alimentazione artificiale agli uccelli selvatici”, ha spiegato Jim Rivers, ecologo animale al College of Forestry dell’ateneo statunitense e co-autore dello studio. “Non sappiamo, in particolare, se e come possa indurre un cambiamento nel loro comportamento, o addirittura metterne a rischio la sopravvivenza. Il nostro studio, però, suggerisce che distribuire cibo agli uccellini in inverno non li porta a sviluppare una dipendenza dagli esseri umani, per fortuna”.
In tutto il mondo ogni anno centinaia di milioni di persone distribuiscono cibo per la fauna selvatica, comportamento che da tempo desta diverse preoccupazioni, dal momento che – per l’appunto – potrebbe indurre un’assuefazione negli animali e renderli magari più pigri o incapaci di procurarsi il cibo da soli. “Dal momento che il fenomeno di nutrire gli animali selvatici è molto diffuso”, ha detto ancora Rivers, “è necessario valutare attentamente le possibili conseguenze sul comportamento della fauna. I risvolti potrebbero essere negativi: si potrebbero osservare, per esempio, un aumento nella trasmissione delle malattie, un’alterazione delle comunità locali o una modifica dei comportamenti migratori. Ma non solo, per fortuna: la maggiore disponibilità di cibo potrebbe anche rinforzare la resistenza corporea degli animali, prolungarne la sopravvivenza invernale e migliorarne la capacità riproduttiva. Il nostro studio è un primo passo verso la formulazione di una risposta a queste domande”.
Per scoprirlo, Rivers e colleghi hanno monitorato da vicino 67 cince dal cappuccio nero (Poecile atricapillus), un piccolo uccello canoro che vive nel Nordamerica, applicando loro dei chip Rfid e sottoponendoli a due diversi tipi di taglio delle piume delle ali (leggero o profondo), una tecnica consolidata per alterare il carico alare e aumentare i costi energetici del volo; a un sottogruppo di controllo, invece, le ali non sono state toccate. Gli scienzati hanno poi disposto, lungo una linea lunga oltre tre chilometri, 21 diverse mangiatoie riempite con semi di girasole e dotate anch’esse di chip per misurare le visite degli uccelli. “La cincia dal cappuccio nero”, ha spiegato Rivers, “è una specie ideale per valutare se e come le sfide energetiche portino a cambiamenti comportamentali durante l’inverno. Il nostro studio ha scoperto che le cince mutilate, quelle per cui il volo era energeticamente più dispendioso, non hanno aumentato la frequenza di visita alle mangiatoie”.
Gli uccelli del gruppo di controllo, invece, hanno effettivamente ridotto le visite alle mangiatoie nel giro di due settimane – probabilmente, dicono gli autori, per ridurre l’esposizione alla predazione – ma dopo sono tornati a una frequenza comparabile a quella degli uccelli mutilati. “Questa osservazione”, concludono i ricercatori, “suggerisce che la disponibilità di cibo nell’ambiente – semi, bacche e piccoli invertebrati – è sufficiente a compensare l’aumento dei costi energetici del volo, e che le cince non hanno aumentato la frequenza di visita alle mangiatoie né la dipendenza dal mangime ‘artificiale’ anche in un momento in cui avrebbero potuto beneficiarne maggiormente perché il volo comportava una maggiore fatica”.
Riferimenti: Journal of Avian Biology
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