Prospettive a 360°

I corsi di laurea in scienze ambientali (SA) nascono all’inizio degli anni Novanta come specifica risposta alla crescente esigenza di esperti di problematiche ambientali. Da un lato, infatti, si era fatta più diffusa la sensibilità della società verso l’ambiente; dall’altro, il recepimento a livello nazionale delle direttive comunitarie aveva reso evidente la carenza di esperti del settore.I primi corsi di laurea avevano una impronta marcatamente naturalistica o marcatamente tecnica, dipendente dall’estrazione culturale dei docenti che erano confluiti nei corsi. Sebbene tutti i corsi di laurea in SA abbiano oggi raggiunto un equilibrio tra le varie competenze, questo dualismo trova ancora riscontro nella denominazione della classe 27 delle nuove lauree triennali: “scienze e tecnologie per l’ambiente e la natura”. Ricordiamo che le classi raggruppano i corsi di studio dello stesso livello, aventi gli stessi obiettivi formativi qualificanti (D.M. 509/1999, art. 4, comma 1).

La multidisciplinarietà è certamente la caratteristica più peculiare dei corsi dedicati all’Ambiente. Lo studio, la comprensione e la gestione dell’Ambiente passano necessariamente attraverso competenze differenziate reperibili nelle aree della biologia, della chimica, dell’ecologia, della fisica, delle scienze della Terra, in quella giuridico-economica e in quella matematico-statistico-informatica. Una multidisciplinarietà che può costituire punto di forza o di debolezza. Il laureato in scienze ambientali è stato spesso identificato come un tuttologo, carente delle specifiche conoscenze ritenute appannaggio dei laureati delle discipline classiche (biologia, chimica, fisica, etc.). Questa visione appare però superficiale, poiché, a ben guardare, anche i laureati delle discipline classiche necessariamente ricevono una formazione troppo ampia per poter caratterizzare uno specialista.

Un laureato in fisica delle particelle elementari, ad esempio, non sarà un esperto di fluidodinamica o di struttura della materia, argomenti questi che afferiscono comunque al comune denominatore: la fisica. Per il laureato in SA, il denominatore comune è, naturalmente, l’ambiente. Agli studenti in vengono offerti numerosi insegnamenti relativi a singole discipline: ci sono, per esempio, otto insegnamenti dedicati alla chimica e finalizzati alla chimica dell’ambiente; potrebbe un chimico avere una formazione più ampia nel settore? Semmai il vero problema si è manifestato nel corpo docente che, composto di specialisti puri, ha tardato nel mettere a punto programmi che fossero mirati al nuovo contesto, nonché integrati con le altre discipline.

Naturalmente, la formazione multidisciplinare implica un numero elevato di insegnamenti: questi potevano trovare un loro equilibrio nella laurea quinquennale in SA, che rappresentava un buon compromesso tra la necessità di conoscere aspetti diversi del problema e la possibilità di approfondirli tutti. Una difficoltà per i laureati “quinquennali” è stata semmai rappresentata da un mondo del lavoro impreparato a utilizzare le loro competenze: a fronte di una forte richiesta del mercato, si è avuto un vuoto legislativo. Per esempio, dopo ripetuti tentativi non si è mai giunti, a nostra conoscenza, alla realizzazione di un albo professionale per i laureati (quinquennali) di SA. I laureati della classe 27 possono invece accedere agli albi degli architetti (settore pianificatori), dei biologi, degli agrotecnici, dei periti agrari, mentre i laureati della classe 82s, di cui si dirà tra poco, possono accedere agli albi degli architetti (settore paesaggisti), dei biologi dei geologi e dei dottori agronomi e forestali. Va meglio, ma manca evidentemente un’idea unitaria dell’ambiente.

Così, frequentemente, il campo d’azione del professionista dell’ambiente è stato occupato da professionisti di settore (geologi, ingegneri, chimici, economisti, etc.). A parte le dovute eccezioni, sembra difficile che questi professionisti possano svolgere con adeguata competenza delle attività che sono intrinsecamente multisettoriali: pensiamo al rapporto sullo stato dell’ambiente nell’ambito del processo di Agenda 21 Locale, ai bilanci ambientali d’impresa e alla certificazione ambientale dei prodotti e dei processi, all’analisi energetica e ambientale dei cicli di vita dei prodotti, alla gestione delle risorse naturali, alla pianificazione ecologica del territorio, alle valutazioni ambientali e alle valutazioni ambientali strategiche. El’elenco potrebbe essere ancora molto, molto lungo. Altrettanto frequentemente, i laureati di SA si sono trovati a svolgere lavori per i quali le loro competenze erano decisamente sovradimensionate; un esempio per tutti: l’applicazione della legge sulla sicurezza del lavoro (D.L.vo 626/1994).

Da questo punto di vista, l’attuale laurea della classe 27 si propone come posizione intermedia: fornire in 180 crediti formativi (equivalenti di tre anni di corso) le competenze essenziali per poter svolgere un lavoro di tecnico dell’ambiente, lasciando alla successiva laurea specialistica (classe 82s “scienze e tecnologie per l’ambiente e il territorio”) l’onere di formare un professionista in grado di analizzare, controllare, gestire l’ambiente. Qui si manifesta una difficoltà che, a nostro avviso, è comune a tutti i nuovi corsi “3+2”: la laurea specialistica dovrebbe, in 120 crediti formativi (equivalenti di due anni di corso), consentire di reintegrare le conoscenze di base e spingersi verso settori specialistici. Difficile nella pratica e didatticamente discutibile riuscire a conciliare le due cose. Il D.M. 509/1999 propone uno strumento alternativo per un’opportuna qualificazione e specializzazione: sono previsti, infatti, “corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea specialistica, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello” (art.3, comma 8).

I master sembrano avere una maggiore elasticità rispetto ai corsi di laurea specialistica, sia per la loro minore durata (richiedono di acquisire almeno 60 crediti formativi, equivalenti a un anno di corso), sia per la possibilità di recepire di anno in anno le esigenze del mondo del lavoro. Insistendo sull’integrazione tra i corsi e il mondo del lavoro si avalla una visione delle SA come scienze applicate e si rischia di trascurare una valenza rilevante della formazione culturale nel settore ambientale: l’applicazione alla ricerca. L’ambiente, come tutti i settori che si sviluppano al confine tra aree diverse, offre grandi potenzialità per lo sviluppo di nuove, proficue ricerche. Sono molteplici gli ambiti in cui le competenze del singolo specialista diventano infruttuose. Pensiamo per esempio all’inquinamento atmosferico, dove la chimica dell’atmosfera e i fenomeni di trasporto e diffusione sono indissolubilmente legati, sia che si stia investigando un fenomeno a scala globale, come il cosiddetto buco dell’ozono, sia che si stia studiando un fenomeno a scala locale, quale l’inquinamento urbano. Ma ampi spazi di ricerca si creano in contesti nuovi, come la conservazione dei beni culturali ed in generale in tutti i casi in cui diviene critica l’interazione con l’ambiente.

La nostra esperienza ci ha dimostrato che la formazione di base fornita nei corsi di SA è in grado di produrre ricercatori anche nei singoli settori disciplinari: ricercatori che colmano rapidamente alcune lievi carenze iniziali e sono immediatamente competitivi anche a livello internazionale. Ma la ricerca investe anche argomenti meno classici, quali l’individuazione e la definizione di indicatori per lo sviluppo sostenibile, la contabilità ambientale, la certificazione ambientale. Il mondo della formazione e della ricerca è, a nostro giudizio, pronto per affrontare le tematiche ambientali con competenza. Molto si deve ancora fare a livello politico e sociale affinché la protezione dell’ambiente non venga percepita semplicemente come un costo aggiuntivo (dall’industriale o dall’automobilista).

Lo sviluppo sostenibile, concetto troppo usato e troppo spesso abusato, porta con sé il concetto di compartecipazione. Una partecipazione che gioca un ruolo centrale nei nuovi principi di governance. Una partecipazione che deve partire dal basso, come nei processi di Agenda 21 Locale. Solo in questo modo l’ambiente comincerà a essere sentito come bene collettivo e gli eventuali compromessi (l’esempio tipico: chiusura di un’attività produttiva inquinante-perdita dei posti di lavoro) saranno responsabilmente determinati dalla collettività e non dagli interessi dei singoli (industriali, operai o politici che siano).

Questa evoluzione non può essere affrontata in modo ambientalista, inteso qui con l’accezione negativa di chi propone un atteggiamento ambientalmente intransigente: “niente automobili, niente centrali elettriche”. Deve, invece, essere seguito un approccio scientifico che sappia oggettivare i vari aspetti del problema, dalla valutazione degli impatti ambientali alla valutazione della qualità ambientale, dalla mobilità sostenibile alla difesa del suolo e delle coste, dall’inquinamento alla conservazione della natura. Ne abbiamo gli strumenti, ne abbiamo le capacità.

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