Quel virus tornato dal passato

    Quando ricevete una e-mail fate sempre attenzione: i virus informatici catalogati come ricordi del passato sono ancora pronti a riprodursi e colpire. In che modo? Sfruttando la crescita esponenziale della Rete, e l’aiuto di navigatori incauti. E’ questo l’inaspettato scenario che Alessandro Vespignani e Romualdo Pastor Satorras, due fisici dell’International Centre for Theoretical Physics di Trieste, hanno elaborato esaminando il comportamento dei virus tra il 1996 ed il 2000. I due hanno applicato metodi matematici sviluppati per la fisica statistica ai dati presenti nell’archivio del ‘Virus Bullettin’, la rivista di riferimento per chi si occupa di parassiti virtuali, dove sono catalogate le informazioni relative alle infezioni informatiche. Si aspettavano di trovare un modello epidemiologico per i virus virtuali che ricalcasse quello elaborato per i virus biologici, dove il tempo di vita medio degli agenti infettivi è molto basso. Ma così non è stato.

    “Il mondo virtuale”, esordisce Vespignani, “è molto differente da quello reale. In quest’ultimo, se il virus non raggiunge una soglia minima di virulenza, soglia calcolabile matematicamente, non si ha la comparsa di un’epidemia. Le vaccinazioni contro i virus biologici servono proprio a tenerli al di sotto del valore minimo. Ciò che abbiamo osservato è che per i virus del computer questa soglia minima invece non esiste”. E sempre sfruttando l’analogia tra mondo virtuale e mondo reale si comprende perché la vita per ‘I love You’ e compagni è più facile che per il virus dell’influenza.

    Nel mondo biologico ogni essere umano ha una cerchia di persone con cui entra quotidianamente in contatto. Una rete di relazione tra individui che permette agli agenti patogeni di trasmettersi. Ma la prevenzione, l’uso dei farmaci e il numero più o meno ristretto di contatti tra le persone sono fattori che riescono tenerne sotto controllo l’invadenza. Tuttavia il numero di queste “connessioni umane quotidiane” non riesce ad eguagliare quello delle connessioni tra computer: nell’era di Internet ogni Pc entra ogni giorno in contatto con un numero di consimili assai maggiore di quanto avvenga a un uomo. E ogni contatto dura in media assai di più. In questo contesto anche il virus più debole riesce a diffondersi e trasformarsi in una minaccia capace di colpire in un intervallo di tempo molto grande. “Un dato significativo che abbiamo trovato”, afferma Vespignani, “è il tempo di vita medio dei parassiti informatici, che è pari a due o tre anni, a seconda delle famiglie, nonostante ogni sei mesi sia disponibile una versione aggiornata dei software antivirus, il vaccino. Invece il virus dell’influenza viene debellato in qualche mese”. E la situazione peggiorerà con l’espandersi della Rete.

    Cambia il modello di riferimento dunque, che comunque conserva un analogia con il mondo reale che può essere utile: alcune ricerche hanno dimostrato che le catene alimentari hanno strutture simile a quella di Internet. Un agente patogeno, anche se poco virulento non impiegherebbe molto ad invadere tutta la catena. Ma se cambia il modello che descrive l’infezione devono essere cambiate anche le modalità di prevenzione e cura. In futuro la sconfitta dei virus informatici non dipenderà in maniera critica dall’antivirus così come è concepito oggi, anche se rimarrà comunque uno strumento fondamentale. “Quello che auspichiamo è un meccanismo attraverso il quale ogniqualvolta un computer viene infettato deve poter dialogare in rete e dare alcune fondamentali informazioni”, continua Vespignani, “deve riuscire a comunicare alle altre macchine di che tipo è l’infezione, come è fatto il virus e come è possibile difendersi. Proprio come fanno i linfociti, le sentinelle del nostro sistema immunitario”. In attesa che tutto ciò diventi realtà “gli utenti devono essere più coscienziosi”, conclude Vespignani. “I programmi antivirus vanno continuamente aggiornati. Chi utilizza il computer non deve comunque abbassare la guardia. Per esempio, aprire gli allegati di e-mail sospette, senza preoccuparsi di passarli alla prova dell’antivirus, è comunque un metodo di trasmissione dell’infezione”.

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