Pozze di acqua cristallina, pullulanti di vita. Che corrono seri pericoli. Sono quelle che caratterizzano la valle di Cuatro Ciénegas, un’area ai margini del deserto di Chihuahua, il più grande del Nord America, in Messico. Qui si trova quello che è stato soprannominato “L’acquario del deserto”: pozze d’acqua salata, ricche di solfati a una temperatura costante di 32° C, dove tartarughe, pesci e batteri vivono in condizioni ambientali simili a quelle del Cambriano (570 milioni di anni fa), quando la vita sul nostro pianeta muoveva i primi passi. Un’area naturale preziosa, posta sotto tutela a partire dal 1994 dallo stato messicano. Ma l’intervento umano sta compromettendone l’equilibrio. “In una valle parallela a quella di Cuatro Ciénegas stanno scavando pozzi profondi per prelevare quest’acqua e lo sfruttamento intensivo di erba medica (alfa alfa) in superficie per l’allevamento del bestiame sta favorendo la desertificazione”, denuncia Italo Giulivo, geologo e presidente di La Venta, un gruppo di scienziati e speleologi italiani che a partire dal 2000 ha condotto, in tre successive spedizioni, accurate ricerche in questa zona. Studi che hanno permesso di risolvere il mistero legato all’origine delle piscine naturali. “L’ipotesi avanzata fino a qualche tempo fa per spiegare la presenza di queste pozze si basava sull’idea che un lembo di mare fosse rimasto “intrappolato” in seguito alla deriva dei continenti”, spiega Giulivo. “Un’ipotesi decaduta per due motivi: la tettonica subita da questa parte del Messico e l’assenza di iodio e bromo, solitamente presenti nelle acque marine”. Alla ricerca della spiegazione, il gruppo italiano – le cui spedizioni, sostenute tra l’altro dall’Istituto Nacional de Ecologia de Mexico, saranno protagoniste di un documentario che andrà in onda su National Geographic Channel il prossimo 12 ottobre – ha avviato un censimento delle pozze, quasi 200, raccogliendo decine di campioni per sottoporli ad analisi chimico-fisiche. E ha perlustrato le montagne calcaree, alte fino a 3500 metri, che circondano la valle, sui fianchi delle quali si aprono canyon e numerose grotte. “Questo sito”, continua il geologo, “ha attirato la nostra attenzione soprattutto per l’opportunità che ci dava di studiare i fenomeni carsici. Il carsismo è infatti una branca ancora poco sviluppata, eppure è decisivo nel determinare lo schema di circolazione delle acque”. Ricostruito grazie anche alle numerose immersioni subaquee e alle perlustrazioni condotte nelle vecchie miniere abbandonate che si insinuano fin nel cuore delle montagne.”Le pur ridotte precipitazioni (200 mm di pioggia annui)”, spiega Giulivo, “si distribuiscono su una superficie montana molto estesa, di circa 900 km2. Scese in profondità, queste acque si riscaldano e poi, laddove la pressione è sufficiente, risalgono fino a sgorgare nelle pozze, che in tal modo vengono continuamente rigenerate”. Un processo, questo, che richiede tempi lunghi, dell’ordine di venti-trent’anni, come hanno dimostrato le analisi isotopiche del trizio che consentono di stabilire “l’età” dell’acqua. “Queste acque in particolare”, prosegue Giulivo, “non sono sfruttabili per usi irrigui né come riserva di acqua potabile, perché troppo dure, essendo ricche di solfati. Tuttavia l’attenzione alle aree carsiche deve crescere, alla luce anche delle previsioni dell’Unesco, secondo la quale nel 2015 l’80 per cento delle acque potabili del pianeta proverrà da queste aree”.