È stato il secondo più grande evento sismico mai registrato, e il terzo per numero di vittime della storia conosciuta. Ma solo ora, dopo aver analizzato ed elaborato le tonnellate di dati prodotti dalle osservazioni strumentali, i geologi sono in grado di descriverne nel dettaglio lo svolgimento. Il terremoto di Sumatra-Andamane del 26 dicembre del 2004, responsabile dello tsunami che ha colpito le coste del Sud Est Asiatico, è l’oggetto di ben quattro studi pubblicati sul numero di questa settimana di Science. Insieme, gli articoli descrivono la dinamica e l’impatto di questo eccezionale evento geologico, e del suo strascico principale, il terremoto di Nias del 28 marzo 2005, che ha raggiunto magnitudo 8,7. A tirare le somme in un articolo introduttivo è Roger Bilham, sismologo dell’Università del Colorado. Il quadro che emerge è quello di un processo di straordinaria complessità, per il quale lo stesso vocabolario della geologia è in parte inadeguato. “Nessun punto della Terra è rimasto indisturbato sulla scala del centimetro” spiega Bilham. “Il movimento sismico ha ridotto la capacità della baia del Bengala e del mare delle Andamane, rialzando il livello del mare di circa un decimo di millimetro”.La lunghezza totale delle fratture, assommando i due terremoti, supera i 1600 chilometri. Usando dati registrati dai sismometri digitali in tutto il mondo, gli scienziati hanno potuto determinare la direzione e la velocità della frattura sul fondale marino. La caratteristica più sorprendente del sisma è il fatto che a una rapida rottura iniziale è seguito un lento scivolamento della placca, con velocità decrescente verso nord. Durante il primo minuto, il terremoto ha rotto un frammento di 100 chilometri della placca procedendo piuttosto lentamente verso nord. Se si fosse fermato lì, la magnitudine sarebbe arrivata al massimo a 7, alta ma non eccezionale per quella zona. Ma anziché rallentare, la frattura ha accelerato fino a 3 chilometri al secondo per 4 minuti successivi, e ha mantenuto poi una velocità media di circa 2,5 chilometri al secondo per i 6 minuti successivi. Il fronte di rottura si è poi propagato verso nord ovest. I sismometri in Russia hanno infatti registrato l’onda sonora a una tonalità più alta di quanto abbiano fatto quelli in Australia, il che riflette il fatto che la frattura si stava allontanando da essi (è l’effetto Doppler). Ma la caratteristica più notevole del terremoto non sono stati tanto i 10 minuti iniziali, quanto il suo lento scivolamento successivo. Lo scivolamento è avvenuto alla tipica velocità della rottura nella parte sud, una velocità sufficiente a provocare lo tsunami. Ma all’estremità settentrionale, la superficie tra la placca Indiana e l’arcipelago delle Andamane ha impiegato più di mezz’ora per scivolare di uno spazio tra i 7 e i 20 metri. È stata questo lento scivolamento a triplicare l’energia del terremoto, fino a raggiungere l’impressionante magnitudo di 9,3. L’energia liberata dal sisma è stata equivalente a quella di una bomba atomica da 100 gigatoni, o alla quantità di energia consumata negli Stati Uniti ogni sei mesi. Proprio la lentezza di questo movimento ha determinato l’impatto più profondo sulla morfologia del pianeta. Le isole Andamane hanno registrato uno spostamento di 4 metri verso il sud dell’India, facendo sì che tratti di costa venissero sommersi e altri emergessero. D’altronde, è stata proprio la lentezza di quel movimento a evitare conseguenze ancora più devastanti. In caso contrario, il sisma avrebbe generato onde di tsunami lungo l’intera linea di rottura, di 1300 chilometri, causando danni ancora più terribili sulle coste di India, Myanmar e Thailandia.