Se “Ciro” è oggi sulle prime pagine di tutti i giornali, a riempire di felicità tutti i fan dei dinosauri, il merito è tutto di Steven Spielberg. E’ stato proprio dopo aver visto “Jurassic Park”, film del regista americano, che il paleontologo dilettante Giovanni Todesco ha deciso di far analizzare da alcuni esperti il suo piccolo fossile, trovato per caso agli inizi degli anni Ottanta. E gli esperti, davanti alla meraviglia di quello scheletrino pietrificato e incredibilmente ben conservato dopo un centinaio di milioni di anni, hanno deciso di ribattezzarlo con un nome più consono alla sua gloria futura: Scipionyx samniticus.
Scipione è infatti il primo dinosauro ritrovato in Italia, nei pressi di Benevento. Si tratta di uno dei vertebrati fossili più importanti mai scoperti, perché è uno dei più completi e perché presenta, unico al mondo, ancora intatte le parti molli. Sì, perché nessuno prima d’ora aveva potuto osservare gli organi interni di un dinosauro. “Ciro” è un piccolo celurosauro, un vero e proprio dinosauro bipede carnivoro, cugino lontano di quel Tirannosauro Rex e di quei Velociraptor che qualche anno fa terrorizzavano le platee dallo schermo cinematografico. Il fossile, quello vero, risale invece al Cretaceo inferiore, cioè a circa 113 milioni di anni fa. E la sua scoperta, considerata una delle più importanti del secolo, è in grado di fornire una grande quantità di dati nuovi per la scienza.
Oltre ad essere l’unico dinosauro al mondo in cui siano visibili gli organi interni, infatti, è anche il primo esemplare di una famiglia di dinosauri finora sconosciuta. E non solo. “Scipione” è anche un rarissimo esemplare immaturo,
morto poche settimane dopo la nascita, probabilmente travolto da un torrente d’acqua provocato da un nubifragio. Insomma, uno dei dinosauri più piccoli al mondo (è lungo appena 24 centimetri), ma, nonostante questo, anche il più completo fra tutti gli scheletri di dinosauri finora scoperti. Il suo ritrovamento testimonia anche che a quell’epoca la nostra penisola non era tutta sommersa dal Mar di Tetide, che si estendeva allora fra l’Europa e l’Africa.
“Che si tratti di un esemplare immaturo lo testimoniano la grandezza della testa, gli enormi occhi e il muso corto”, spiega Cristiano Dal Sasso, coordinatore del laboratorio di paleontologia presso il Museo Civico di Storia Naturale di Milano, “oltreché l’incompleta ossificazione dello scheletro”. Se avesse vissuto abbastanza da diventare adulto, Scipione avrebbe raggiunto i 20 chili e una lunghezza di un metro e mezzo. Nell’esemplare fossile, sdraiato sul lato sinistro con la testa verso l’alto, i paleontologi hanno individuato diverse parti molli: sotto la coda sono conservate alcune grandi fibre muscolari isolate, il fascio dei muscoli caudofemorali, cioè i muscoli della base della coda, e il tratto finale dell’intestino. Sono presenti fibre muscolari anche nel petto del dinosauro e sono visibili gli anelli cartilaginei della trachea.
Ma il dato biologicamente più interessante è sicuramente la conservazione dell’intestino, praticamente completo. La sua fossilizzazione è perfetta, tanto che nelle anse del tubo digerente sono visibili le pieghe della tonaca muscolare. L’intestino è sorprendentemente corto e largo, e fa così presupporre un’alta velocità di assorbimento. “Questo apre prospettive di ricerca finora insospettate nello studio biologico dei dinosauri, e certamente riaccenderà il dibattito sul metabolismo di questi rettili e sull’origine degli uccelli”, afferma Dal Sasso. “Non è ancora chiaro, infatti, se i dinosauri fossero animali a sangue caldo, come i mammiferi e gli uccelli, oppure a sangue freddo, come altri rettili”. Ma sia le dimensioni dell’intestino di Scipione, che suggeriscono un metabolismo piuttosto rapido, caratteristico di un animale a sangue caldo, sia la presenza della “forcula”, un osso dalla tipica forma a V, presente oggi nei volatili a supporto delle ali, fanno pensare ai dinosauri come progenitori degli uccelli.
Oltre a quella passata, è interessante anche la storia recente di questo piccolo dinosauro. Trovato da Todesco una quindicina di anni fa, il fossile è rimasto in casa del paleontologo per oltre dieci anni. Fino a quando il suo scopritore non ha deciso di farlo analizzare da alcuni colleghi più esperti. E’ quindi dietro loro consiglio che nel 1993 Todesco ha donato Scipione alla Soprintendenza di Salerno. Da quel momento fino al giugno ‘97 i ricercatori sono stati impegnati in una paziente operazione di pulitura, una cesellatura al microscopio con aghi sottilissimi e speciali resine consolidanti.
“I fossili che riusciamo a ritrovare”, spiega Dal Sasso, “sono incastonati nella roccia. Così, per poter studiare Scipione, abbiamo dovuto riportarlo alla luce attraverso un lungo lavoro manuale”. Ora che l’operazione è ultimata, l’importanza della straordinaria scoperta è stata consacrata a livello mondiale con la pubblicazione di un articolo su Nature a firma di Dal Sasso e di Marco Signore, del dipartimento di paleontologia dell’Università di Napoli.
A rendere il piccolo Scipionyx così particolare sono state le condizioni della sua morte. Il fossile è stato infatti ritrovato nel giacimento di Pietraroia. Questo è considerato un Fossil-Lagerstätten, ovvero un “giacimento a conservazione totale”, un luogo cioè dove specifiche condizioni ambientali possono permettere anche la conservazione degli organi interni, dei muscoli e della pelle. “Le conservazioni totali sono molto rare”, spiega Dal Sasso, “perché si devono verificare simultaneamente molte condizioni: un rapido seppellimento del cadavere con depositi di calcare in un ambiente lagunare poco profondo, e periodi ciclici di bassa ossigenazione che non permettano ai batteri aerobi di attaccare i resti”.
Solitamente allo stato fossile si ritrovano soltanto le parti dure degli organismi, cioè le ossa, i denti o i gusci; nei Lagerstätten, giacimenti rarissimi, avviene invece una cristallizzazione perfetta e ad ogni molecola del tessuto se ne sostituisce una minerale, così che quando si seziona il fossile è possibile osservarne la struttura molecolare. I calcari di Pietraroia, di origine marina, sono noti fin dal diciottesimo secolo, da quando cioè furono descritti dal geologo Scipione Breisak. Il nome del fossile trae origine proprio da quello dello studioso, con l’aggiunta della parola “onyx” che significa artiglio, ad indicare il modo in cui i dinosauri carnivori afferravano la preda. “Samniticus” sta invece ad indicare la zona del ritrovamento, il Sannio, nome latino del beneventano.