Che cosa succederebbe in Italia se la temperatura globale aumentasse di un valore compreso tra 1,5 e 4,5 gradi centigradi? Il livello del mare salirebbe fra 20 e i 140 centimetri. Ma già oltre il mezzo metro le conseguenze potrebbero essere catastrofiche: dalla scomparsa di molte spiagge della riviera Adriatica alla trasformazione delle lagune costiere in baie, dall’allagamento dei terreni bonificati alla risalita di acque salate lungo i fiumi. Sono alcuni degli scenari prefigurati nel volume appena pubblicato “Linee guida del piano nazionale di ricerca per la protezione del clima” (edizioni Avverbi, pag. 123, lire 18.000), curato da Antonio Navarra, ricercatore del Cnr e docente al corso di laurea in Scienze ambientali dell’Università di Bologna. Galileo lo ha intervistato.
Le “Linee guida” prefigurano uno scenario abbastanza inquietante per la penisola. In che modo l’Italia si sta preparando ad affrontare queste possibili emergenze?
“Il nostro paese sta rispettando gli impegni presi in sede internazionale (alla conferenza mondiale sul clima a Kyoto nel 1997, e quella di Buenos Aires, lo scorso novembre), tra cui quello di ridurre del 6,5% le emissioni di “gas serra” entro il 2008-2013. Questo indica una attenzione reale verso questi temi e la volontà di agire. Ma sul piano della ricerca siamo ancora indietro: rispetto a paesi come Stati Uniti e Giappone, ma anche Germania, Danimarca, Inghilterra, l’Italia investe ancora poco sulla ricerca sul clima”.
Insomma, stiamo sottovalutando le possibili conseguenze del cambiamento climatico del pianeta?
“Soprattutto, ne stiamo sottovalutando gli aspetti economici e sociali, oltre che ecologici. Ma c’è anche un problema organizzativo: lo studio del clima richiede un approccio multidisciplinare, in cui sia coordinata l’attività di esperti con competenze diverse. Da noi, invece, i vari settori sono separati come compartimenti stagni. Assieme alla carenza di ricercatori altamente qualificati, questo ci rende impreparati di fronte alle esigenze della ricerca”.
E’ possibile individuare delle relazioni tra l’”effetto serra” e il recente abbassamento delle temperature invernali, o le alluvioni che hanno devastato tutta la penisola?
“Gli scienziati sono d’accordo sul fatto che l’aumento della temperatura globale di circa mezzo grado centigrado, registrato rispetto all’inizio del secolo, sia dovuto all’emissione dei “gas serra”. È molto più difficile, invece, provare scientificamente un legame con eventi anomali come le alluvioni. Servono misurazioni di lungo periodo, perché le stime devono essere espresse come medie. L’ipotesi è che ci sia uno sfasamento nella frequenza degli eventi atmosferici, il cui risultato finale sarà che eventi rari diventeranno un po’ meno rari. Ma, a rigore di scienza, la responsabilità dei “gas serra” è ancora da provare. Usando una metafora, potrei dire che l’assassino è stato trovato con l’arma in mano, poco lontano dalla vittima. Ma nessuno ha visto l’omicidio”.
Nel suo libro si parla di effetti preoccupanti sulle fasce costiere e sugli ambienti montani…
“Secondo le previsioni, un innalzamento della temperatura globale di circa 1,5 – 4,5 gradi centigradi potrebbe provocare un aumento del livello del mare compreso fra i 20 e i 140 centimetri. Ma già se si superassero i 50 centimetri le conseguenze potrebbero essere catastrofiche: il primo effetto riguarderebbe la regressione di molte spiagge, la trasformazione delle lagune costiere in vere e proprie baie, l’allagamento dei terreni bonificati e la risalita di acque salate lungo i fiumi. È una prospettiva che alcuni studi hanno dimostrato probabile per i litorali dell’alto Adriatico, e che avrebbe, fra l’altro, un forte impatto anche sul turismo. Un discorso simile vale per l’ecosistema montano: negli ultimi 15 anni l’innevamento è diminuito per via degli inverni più miti, e i ghiacciai alpini si sono ridotti di spessore e si sono ritirati. A meno di interventi, gli scenari possibili sono preoccupanti”.
Secondo quali linee di intervento si articola il piano nazionale?
“Nelle “linee guida” abbiamo cercato di fornire al ministero dell’Ambiente le informazioni necessarie a rendere più efficaci le strategie. Il piano è composto da una serie di settori di ricerca. Alcuni riguardano gli “input climatici”, e trattano temi come la variabilità del clima su scala annuale, decennale, secolare, o i cambiamenti della composizione chimica dell’atmosfera. Altri invece analizzano gli effetti di questi cambiamenti sugli ecosistemi terrestri e marini”.
In che modo questo piano può aiutare la ricerca sul clima in Italia?
“Dando un impulso verso criteri moderni di competizione, trasparenza e qualità. E magari rafforzando la posizione italiana rispetto agli altri paesi. I nostri rappresentanti nei grandi appuntamenti internazionali sul clima, infatti, a volte sono penalizzati dai problemi strutturali della ricerca in Italia. Se si seguisse il piano, saremmo in grado di partecipare, in maniera più attiva, anche alle iniziative europee esistenti. Le analisi e le strategie devono essere coordinate con i paesi vicini, in particolare con quelli europei e mediterranei”.
E come si realizza questa collaborazione?
“Nel piano chiediamo l’istituzione di un centro permanente di simulazione, in cui vengano costruiti modelli per la previsione dei cambiamenti del clima. D’altra parte, se è vero che si tratta di un problema globale, è anche vero che c’è bisogno di studi e analisi a livello locale, che tengano conto delle particolari condizioni non solo climatiche, ma anche economiche e sociali dell’Italia. Questi modelli sono necessari per le operazioni di downscaling, cioè per ridurre la scala delle previsioni dal livello globale a quello locale. In questo settore, Giappone e Stati Uniti hanno stanziato fondi nell’ordine del miliardo di dollari”.