Segni come parole

Vivono a migliaia di chilometri di distanza, alcuni in Cina, altri negli Stati Uniti. La loro cultura non potrebbe essere più differente. Sono bambini di tre-quattro anni che in comune hanno però il fatto di essere sordi dalla nascita e figli di genitori udenti. Quindi per comunicare con loro non usano la lingua dei segni, che i genitori non conoscono, ma un sistema di gesti spontanei. Che, anche in due continenti diversi, avrebbero qualcosa in comune. E’ quanto sostengono due psicolinguiste dell’Università di Chicago, Susan Goldin-Meadow e Carolyn Mylander in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Nature. I gesti sono differenti, ma il modo in cui vengono usati per comporre “parole” e “frasi” sarebbe simile. Esisterebbe insomma quella grammatica universale che Noam Chomsky ha teorizzato già negli anni Cinquanta.

“I loro gesti spontanei”, spiegano le ricercatrici americane, “assomigliano al linguaggio naturale: hanno precise strutture linguistiche che regolano la composizione delle parole e delle frasi. E queste strutture hanno somiglianze impressionanti”. Sono i bambini stessi a introdurle nei loro gesti e sono diverse da quelle usate dalle madri per comunicare con loro. Secondo le ricercatrici, insomma, lo sviluppo del linguaggio, per quanto avvenga in condizioni avverse e in culture molto diverse, è costante e può considerarsi “innato”.

L’articolo di Nature riaccende il dibattito sulle basi biologiche del linguaggio apertosi con le teorie di Chomsky. Secondo il linguista americano tutte le lingue del mondo condividono una “grammatica universale” impressa nei nostri geni. Lo sviluppo del linguaggio nel bambino avviene quindi senza sforzo né istruzione formale e indipendentemente da altre capacità cognitive quali la percezione o il pensiero. Ma non tutti concordano. Tra questi Virginia Volterra ed Elena Pizzuto, dell’Istituto di psicologia del Cnr, che si occupano di acquisizione linguistica nei bambini sordi e udenti da quasi vent’anni. E sull’argomento hanno già avuto modo di ribattere, dal momento che lo studio della Goldin-Meadow e della Mylander non è il primo che è stato pubblicato. Alcuni dubbi sul metodo impiegato dalle ricercatrici americane nell’analisi dei loro dati erano già stati espressi nel libro “From Gesture to Language in Hearing and Deaf Children”, uscito negli Stati Uniti nel 1990, a cura di Virginia Volterra e Carol J. Erting. Le stesse riserve sembra possano valere ancora oggi.

Si tratta di quello che in termini tecnici si definisce sovrainterpretazione dei dati. “Da un punto di vista metodologico”, spiega Elena Pizzuto, “le analisi di Goldin-Meadow non prendono in considerazione altre possibili interpretazioni degli stessi dati e non tengono conto di tutte le condizioni ambientali e linguistiche cui i bambini sordi sono probabilmente esposti. I gesti prodotti dai bambini sono non codificati, spesso di indicazione verso oggetti o persone. Come si può essere certi che un gesto di indicazione rappresenti un nome o un verbo? Un semplice gesto di indicazione verso la credenza può significare, per esempio, sia “bere” che “bicchiere”. La scoperta di strutture linguistiche soggiacenti ai gesti in questi bambini può dipendere quindi da un’interpretazione arbitraria dei dati”. Virginia Volterra sottolinea inoltre la probabilità che in questa ricerca si attribuiscano ai gesti dei bambini strutture linguistiche diverse da quelle realmente possedute: “Non dimentichiamo che il tipo di comunicazione esibita dai bambini della ricerca americana è estremamente povera rispetto a quella di bambini, udenti o sordi, della stessa età. Quelli che ricevono un input completo in una lingua vocale o dei segni parlano e segnano con strutture estremamente ricche e complesse sia da un punto di vista lessicale, che grammaticale e sintattico”.

C’è una seconda obiezione che parte dalle ricercatrici del Cnr. “Questi bambini”, osserva Volterra, “frequentano scuole dove si insegna loro a parlare e dove comunicano con altri coetanei sordi e con insegnanti adulti. Ma la ricerca prende in considerazione solo la comunicazione con le madri. Chi può dire che le strutture linguistiche osservate nei loro gesti non vengano acquisite a scuola, magari da altri bambini sordi che conoscono la lingua dei segni?”. Il dibattito, insomma, è tutt’altro che chiuso. La ricerca di Susan Goldin-Meadow e Carolyn Mylander ha comunque il merito di sottolineare, ancora una volta, come l’analisi della comunicazione gestuale, non solo dei bambini sordi, ma anche di quelli udenti, sia uno strumento di indagine essenziale per comprendere la natura del linguaggio umano.

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