Il suo ex socio investe miliardi per curare tubercolosi, Aids e malaria. Ma anche Paul Allen, cofondatore della Microsoft assieme a Bill Gates, non è rimasto con le mani, e ha messo un po’ dei suoi soldi a disposizione della scienza biomedica. Il risultato dei suoi investimenti, portato a termine la settimana scorsa, è l’Allen Brain Atlas, un atlante dell’espressione genica nel cervello. Costato 41 milioni di dollari e tre anni di lavoro, l’atlante, ora consultabile liberamente on line, rivela quali geni sono espressi, o ‘accesi’ (cioè danno effettivamente luogo alla produzione di proteine) e quali sono ‘spenti’ nelle diverse parti del cervello. Piccolo particolare, il cervello in questione è quello del topo e non il nostro: ma a sentire i ricercatori questo non è poi un grosso problema.
Per arrivare all’atlante (che è presentato come un modello in 3D navigabile), i ricercatori dell’Allen Institute guidati da Allan Jones, hanno allevato migliaia di topi fino all’età di 56 giorni. Dopo averli uccisi, hanno suddiviso il loro cervello in sezioni finissime, che hanno poi trattato con marcatori molecolari in grado di evidenziare la presenza dell’Rna messaggero derivato da quel gene. Le cellule in cui quel gene era attivo si coloravano e potevano essere fotografate. Ora i ricercatori possono, gratuitamente, consultare l’atlante come un database online, per esempio partendo da un gene per vedere, attraverso una serie di sezioni orizzontali e verticali, in quali punti del cervello è espresso. Le dimensioni informatiche sono decisamente imponenti: 85 milioni di immagini, 600 terabyte di dati. Lo scopo? Nell’immediato, contribuire alla comprensione del funzionamento complessivo del cervello; un giorno, si spera, aiutare a sviluppare strumenti di diagnosi e terapie per diverse patologie, una volta appurato il legame tra esse e il malfunzionamento di alcuni geni.
Secondo Luca Pani, presidente di Pharmaness (una società di ricerca neurofarmacologica creata da Cnr e Università di Cagliari) il nuovo atlante è uno strumento importantissimo per tutti i ricercatori impegnati in questo campo. “Si inizia finalmente a vedere un esempio concreto di quello che si chiama biologia dei sistemi, o system biology. Qui abbiamo uno strumento che mette insieme neuroanatomia e genetica per cercare di studiare il cervello come sistema complesso, e non nelle sue singole parti”. Va bene, ma il cervello in questione è pur sempre quello del topo.
“Ovviamente un’operazione di questo tipo su cervelli umani sarebbe impossibile. Però in molte aree il cervello del topo è molto simile a quello umano, dimensioni a parte. Certo, l’estensione complessiva della corteccia del topo è pari a un francobollo, mentre quella dell’essere umano è di quattro fogli protocollo. Però sappiamo che i genomi sono simili al 90 per cento, e che nell’essere umano la maggiore complessità della corteccia è dovuta alla presenza di più copie degli stessi geni, e non di geni in più”.
Più nello specifico, l’atlante ha già rivelato che l’80 per cento dei geni del topo sono espressi nel cervello, una percentuale più alta di quella prevista dai ricercatori, che era tra il 60 e il 70 per cento. Inoltre, sono molto pochi i geni espressi solo in una specifica regione del cervello. Insomma, i geni attivi nel cervello sono per lo più attivi in tutto il cervello in modo indifferenziato. Questa è una sorpresa, e non è una bella sorpresa per le case farmaceutiche, che hanno sempre sperato di sviluppare farmaci in grado di agire selettivamente su una parte del cervello usando come “guida” i geni attivi in quell’area.
“Ma è ancora troppo presto per fare valutazioni di questo tipo” avverte Pani. “Prima bisogna capire se quei pochi geni la cui espressione varia da un’area all’altra sono dei master regulator, cioè geni che a cascata influenzano l’attività di molti altri. In quel caso anche piccole variazioni diventerebbero molto importanti. Se così non fosse, bisognerà cercare altrove, nella trascrizione e sintesi delle proteine, i fattori che differenziano le diverse parti del cervello”.