La crisi degli oppioidi negli Usa, purtroppo, fa ancora notizia. Lo fa con la pubblicazione del report del National Safety Council relativo ai rischi di morte prevenibili per la popolazione americana. Dal documento emerge infatti come non solo il rischio di morire per overdose accidentale da oppioidi svetti al quinto posto nella classifica delle morti prevenibili (guidata da malattie cardiovascolari, tumori e malattie respiratorie croniche), ma ha superato per la prima volta quello di rimanere vittima di un incidente automobilistico: 1 su 96 contro 1 su 103 (dati riferiti al 2017). Una crisi che, si legge in una nota diffusa dallo stesso Nsc, sta peggiorando sempre più soprattutto per l’uso illegale del fentanyl. Anche se alla crisi degli oppioidi – una classe vasta di sostanze derivate dall’oppio, naturali, semisintetiche o di sintesi, che agiscono su recettori presenti sulle cellule del sistema nervoso – non contribuiscono solo le droghe illegali ma anche i farmaci da prescrizione. Anzi.
Come ricorda lo stesso Dipartimento della salute oltreoceano, infatti, il cattivo uso degli oppioidi affonda probabilmente le proprie radici negli anni Novanta. Allora, rassicurati dalla aziende farmaceutiche che escludevano rischi di dipendenza dagli oppioidi, i medici cominciarono a prescriverne in grandi quantità. La diffusione dell’uso, e quindi del misuso e dell’abuso – di oppioidi da prescrizione e non – negli anni avrebbero presentato il loro conto, salato.
Gli oppioidi sono una risorsa importante per la gestione del dolore severo – soprattutto per ridotti periodi di tempo, per esempio in seguito a interventi chirurgici o in caso di tumori o patologie croniche non oncologiche – ma come tutti i farmaci non sono immuni da rischi, specialmente sul lungo termine.
Tutt’altro. Oltre agli effetti collaterali di nausea, vomito, depressione, confusione, sonnolenza, l’uso degli oppioidi da prescrizione può indurre la tolleranza ai medicinali, aumentare la sensibilità al dolore e può dare dipendenza fisica, ricordanodai Cdc americani. Con il pericolo che per avere lo stesso sollievo dal dolore servano più quantità del farmaco (sono oppioidi da prescrizioni sostanze come morfina, codeina, ossicodone, metadone, tramadolo e fentanyl). Tutto questo, unitamente al fatto che gli oppioidi non solo alleviano il dolore, ma inducono anche euforia, può aumentare il rischio di dipendenza, con usi prolungati, fuori indicazione. Ad alti dosaggi gli oppioidicausano problemi respiratori e possono portare a morte e il rischio aumenta se nel mix finiscono anche alcolici e sedativi. Ed è proprio all’aumento delle morti per overdose negli anni che si parla di epidemia di oppioidi, uno dei più gravi problemi di salute pubblica dei nostri tempi, come alcuni esperti e lo stesso Trump l’hanno definita.
I Cdc americani identificano nell’aumento della prescrizione degli oppioidi negli anni Novanta – usati anche per il trattamento di dolori come quelli associati all’osteoartrite o i dolori alla schiena – la prima ondata di morti per overdose da oppioidi. L’eroina prima e la diffusione di oppioidi sintetici poi, in particolare il fentanyl illegale dicevamo, avrebbero invece caratterizzato rispettivamente la seconda e la terza ondata dell’epidemia, in tempi più recenti. In totale dal 1999 al 2017 le morti per overdose da oppioidi, da prescrizione o no, sono state quasi 400 mila. Le stime solo per lo scorso anno oscillano tra le 43 mila e 49 mila morti: in media morire di oppioidi nel 2017 era sei volte più frequente rispetto al 1999. Tra il 2000 e il 2012 è anche aumentato di cinque volte il numero di bambini con sindrome da astinenza neonatale, bimbi nati da mamme che hanno fatto uso di oppioidi durante la gravidanza (misuso), con rischio di basso peso alla nascita e complicanze respiratorie.
“Dal 2016 al 2017, le morti per overdose per tutti gli oppioidi e gli oppioidi sintetici sono aumentate, ma le morti per gli oppioidi da prescrizione ed eroina sono rimaste stabili – si legge in un report diffuso solo lo scorso mese – l’epidemia di overdose da oppioidi continua a peggiorare e si evolve a causa del continuo aumento delle morti collegate agli oppioidi sintetici”. In particolare legate al fentanyl, una sostanza che mette paura anche all’Europa, sostituitosi negli anni all’eroina e all’ossicodone nella classifica degli oppioidi più letali.
Il fentanyl è un medicinale, approvato come analgesico, molto potente: 80-100 volte tanto la morfina, 25-40 volte più forte dell’eroina, 20 milligrammi rappresenta una dose potenzialmente letale. Malgrado i rischi correlati a un uso improprio delle formule da prescrizione, i pericoli principali sono collegati all’uso della sostanza illegale, che sul mercato può trovarsi anche mescolata a cocaina ed eroina. In realtà quella del fentanyl è una famiglia, in cui si annoverano anche molecole analoghe con strutture ed effetti simili, e con potenza variabile, minore in alcuni casi, molto maggiore del fentanyl in altri (fino a 10 mila volte la morfina si parla nel caso del carfentanil, letale a poche decine di microgrammi).
I dati per il 2018 provvisori sembrano indicare un miglioramento della situazione, ma è ancora presto per dirlo. Presto per capire se la grande quantità di progetti, studi e iniziative messe in campo per cercare di arginare un’epidemia di così lungo corso possano aver prodotto frutti. Quel che appare ovvio è che un problema così complesso non possa essere affrontato su un’unica linea.
Le strategie di prevenzione non possono essere mirate solo a una migliore educazione dei medici all’appropriatezza delle prescrizioni (diminuite con la diffusione della cannabis terapeutica legale) e alla lotta al mercato illegale, ma devono allargarsi e comprendere sforzi per abbattere le false credenzein materia, identificare le popolazioni più a rischio (separandoquello accidentale da quello intenzionale), e quindi più bisognose di assistenza, per rendere più disponibile e rapido l’accesso ai trattamenti d’emergenza contro il sovradosaggio e l’uso dove possibile di altri analgesici, per potenziare la ricerca sulla gestione del dolore, con lo sviluppo di nuovi farmaci, con un profilo di sicurezza migliore e a minor rischio di dipendenza. Non da escludere anche l’idea di ricerca che non miri solo a trovare nuove opzioni più sicure, ma che faccia luce per esempio anche sulla reale efficacia del trattamento con oppioidi nel lungo termine e indaghi l’efficacia di altri approcci per la gestione del dolore, anche non farmacologici. E perché no, sarebbe auspicabile anche far luce sui legami tra marketing delle aziende produttrici e prescrizioni degli oppioidi.
Se il timore dalle nostre parti è che a volte questi farmaci possano essere prescritti troppo poco, secondo alcuni, sbaglieremmo a guardare agli Usa come un paese lontano e all’epidemia di oppioidi come un problema che non ci riguarda per nulla. “Se è vero che in Italia non stiamo assistendo all’epidemia di morti per oppioidi che da anni interessa gli Stati Uniti, è vero però che il problema potrebbe presentarsi anche da da noi e che le unità di tossicologia hanno a volte a che fare con casi di problematiche correlate all’uso di oppioidi – racconta a Wired.it Guido Mannaioni dell’Università di Firenze e direttore della tossicologia medica dell’azienda ospedaliero universitaria Careggi. Tanto che la Società italiana di farmacologia (Sif) e la Società italiana di tossicologia (Sitox) hanno da poco firmato un position paper sull’appropriatezza terapeutica e il timore di dipendenze da oppioidi per il trattamento del dolore cronico. L’intento, spiegano gli esperti, è di fare tesoro dei rischi connessi alla inadeguatezza delle prescrizioni, al misuso e alla diversione verificatesi oltreoceano per scongiurare che accada anche da noi. “E’ vero che esistono tantissime linee guida sul tema, ma lo scopo di questo documento è stato quello di fornire gli strumenti utili ad evitare in Italia situazioni simili a quella americana – riprende Mannaioni, che insieme a Patrizia Romualdi dell’Università di Bologna ha coordinato i lavori – Un tempo gli oppioidi erano prescritti solo per il trattamento del dolore associato ai tumori, oggi non più, lo sono anche per il dolore cronico non oncologico. Inoltre l’Italia è arrivata dopo: da noi solo dal 2010 con la legge 38 la prescrizione di oppioidi è diventata più semplice, anche per i medici di medicina generale. Negli Usa l’accessibilità è partita prima, quello che vogliamo è scongiurare quanto visto altrove”.
“D’altra parte è anche vero che i dati americani sono risultati in alcuni casi sovrastimati e che l’aumento delle problematiche legate agli oppioidi, soprattutto quelle legate alla mortalità, sono, secondo un recente editoriale di JAMA presenti prevalentemente in persone giovani che hanno verosimilmente iniziato l’uso degli oppioidi in modo inappropriato, voluttuario”, aggiungono Romualdi e Mannaioni. “A questo proposito invece – continuano gli esperti – alcune indagini suggeriscono che l’utilizzo degli oppioidi nel dolore cronico severo, condizione in cui la neuroplasticità induce meccanismi di cronicizzazione centrale che modificano la funzionalità del sistema nervoso centrale, non attivi i centri limbici cerebrali preposti alla gratificazione, quando si fa un uso voluttuario, riducendo così il rischio del loro abuso”.
Così, ricorda Mannaioni, la terapia del dolore dovrebbe seguire le indicazioni già contenute nelle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità per quello oncologico, con un modello a scala: una volta identificato il tipo di dolore le prime scelte sono per farmaci non oppioidi abbinati o meno ad adiuvanti, e solo successivamente se il dolore non è controllato si passa a oppioidi, prima quelli più deboli e poi quelli più potenti. “Ci sono casi in cui anche a questo livello il dolore non è controllabile: in queste situazioni sono fondamentali approcci integrati anche non farmacologici che chiamino a raccolta diversi specialisti, e soluzioni diverse, come possono essere la neurostimolazione o l’ablazione nervosa”. Ma gli aspetti fondamentali, conclude l’esperto, sono la selezione dei pazienti e il loro stretto monitoraggio: “È fondamentale conoscere i pazienti, la loro storia, e i farmaci che si prescrivono, per controllarne l’effettiva efficacia e l’insorgenza di comportamenti aberranti che possano far pensare a disturbi da utilizzo di queste sostanze, che restano, se ben utilizzate e nei casi necessari, risorse importanti per la gestione del dolore cronico”.
Articolo aggiornato in data 25 gennaio 2018
Via: Wired.it