Per la fantascienza è cosa fatta, e da tempo. Che Siano i campi sterminati di Matrix, dove gli uomini “non nascono, vengono coltivati”. O un esempio più classico, come il celebre Il nuovo mondo (Brave New World in originale) di Aldous Huxley, in cui gli esseri umani sono prodotti in serie, estrema perversione di una società industriale che ha preso il sopravvento anche sulla nostra biologia. Nella realtà, invece, un modo per far sviluppare completamente un embrione umano al di fuori del corpo materno (o di un utero umano, quanto meno) è ancora impossibile. Ma in Europa si lavora a qualcosa di simile: all’università tecnica di Heindoven è infatti in fase di sviluppo un utero artificiale, o meglio un supporto vitale perinatale, pensato per far sopravvivere i bambini prematuri anche prima della 22sima settimana di vita, cioè quando attualmente le chance di sopravvivenza sono pressoché inesistenti. Un obbiettivo che i ricercatori dell’università olandese ritengono di poter raggiungere al massimo nel giro di cinque anni, grazie a un finanziamento da tre milioni di euro ricevuto dall’Ue nell’ambito del programma Horizon 2020.
Cos’è un utero artificiale?
In termini molto generali, un utero artificiale è un qualunque dispositivo che riproduca le condizioni in cui un bambino si trova a crescere all’interno dell’utero materno. Per i nati prematuri, infatti, il maggiore pericolo è rappresentato dalle differenti caratteristiche ambientali in cui si trovano a crescere: l’esposizione all’aria e la mancanza del cordone ombelicale, per citarne un paio, rendono difficile il loro sviluppo anche nelle migliori unità di terapia intensiva. Prima della 28esima settimana esistono rischi non trascurabili che un bambino prematuro riporti complicazioni e disturbi dello sviluppo, perché gli organi dei piccoli sono troppo immaturi e hanno difficoltà ad adattarsi alla vita extrauterina. Prima della 22esima, le chance di sopravvivere sono praticamente inesistenti. Un ambiente che offra loro qualcosa di equivalente ad un liquido amniotico, un cordone ombelicale collegato a una placenta e tutte le altre caratteristiche di un utero vero e proprio, permetterebbe di salvare moltissimi bambini nati estremamente prematuri. E la ricerca, un po’ alla volta, ci sta avvicinando all’obbiettivo.
L’esempio americano
Le novità eclatanti, in questo campo, sono ferme a un paio di anni fa. Quando i ricercatori del Children’s Hospital di Philadelphia hanno presentato i traguardi raggiunti dal loro Biobag: una sacca di plastica molto speciale, in grado di imitare la protezione offerta dalla placenta, colma di una soluzione elettrolitica che mima il liquido amniotico, e dotata di un tubo che viene collegato al feto in via di sviluppo, per replicare le funzioni del cordone ombelicale, filtrando il sangue dalle scorie e dall’anidride carbonica e arricchendolo di nutrienti e ossigeno. Per testarlo, i ricercatori americani hanno utilizzato otto agnellini, inseriti nel dispositivo in un periodo dello sviluppo paragonabile alla 23esima settimana di una gravidanza umana, e lasciati crescere al suo interno per 28 giorni. Al termine dell’esperimento, gli agnelli sono stati estratti dal Biobag e dopo questa nascita artificiale le loro condizioni di salute sono state comparate con quelle di un agnellino di controllo, frutta di una gravidanza tradizionale, senza che emergessero differenze importanti.
I risultati incoraggianti hanno fatto sbilanciare Alan Flake, direttore del Centro per la ricerca fetale al Children’s Hospital di Philadelphia, che all’epoca ha annunciato l’avvio di sperimentazioni cliniche nel giro di 3-5 anni. Per ora però non ci sono state conferme di esperimenti che coinvolgano neonati umani. E non c’è da stupirsi: un agnello e un bambino, per quanto simili, sono anche molto diversi. Troppo, probabilmente, per sfidare la sorte nel mondo reale.
Il progetto europeo
Per i ricercatori del gruppo di Heindoven e i loro partner, tra cui spicca anche un gruppo del Politecnico di Milano, l’esperimento americano rappresenta un importante punto di partenza. La conferma – ha raccontato al Guardian Guid Oei, uno dei ricercatori del gruppo olandese – che è possibile mantenere in vita un feto di animale sommergendolo in un ambiente liquido. Tra i problemi che devono affrontare i nati prematuri, infatti, uno dei principali riguarda lo sviluppo di polmoni e intestino: quando questi organi non sono sufficientemente maturi non riescono ad espletare le loro funzioni, e quindi respirare autonomamente (così come digerire i nutrienti) è per loro estremamente complicato. Tenendoli sommersi in un liquido e lasciando lavorare il cordone ombelicale, come avviene normalmente, si superano questi problemi.
Ma una gravidanza naturale è molto più di questo, ed è quanto puntano a replicare nei laboratori di Heindoven. Nelle loro intenzioni, il nuovo utero artificiale sarà qualcosa di molto più complesso di una semplice sacca di plastica: al suo interno i feti avranno sensazioni tattili, uditive e olfattive paragonabili a quelle che avrebbero nel grembo materno. E lungi dall’essere meri effetti speciali, queste sensazioni sono essenziali per un corretto sviluppo del nascituro. Anche sul piano delle sperimentazioni i ricercatori vogliono compiere un importante passo in avanti rispetto all’esperienza americana. Agnelli e altri modelli animali non sono sufficientemente affidabili per mettere a rischio una piccola vita umana, e quindi il progetto prevede di sostituirli con una tecnologia di nuova concezione: manichini stampati in 3D dotati di un vasto range di sensori, che permetteranno, insieme a modelli computazionali e simulazioni computerizzate ad hoc, di testare e monitorare tutti gli aspetti salienti della gravidanza, prima di immaginare un primo test sull’uomo.
Neonati a rischio
Se tutto andrà come sperato, il nuovo utero artificiale – di cui al momento non si conoscono ancora le specifiche tecniche – potrebbe vedere la luce entro i prossimi 5 anni. A quel punto, potrebbe rapidamente diffondersi in tutte le neonatologie del mondo, perché rappresenterebbe un’autentica rivoluzione. Stando ai dati, oggi alla 23esima settimana la sopravvivenza dei prematuri si aggira ancora intorno al 10-40%, alla 24esima raggiunge il 40-70%, e solo dalla 27esima inizia a superare il 90%. Un utero artificiale perfettamente funzionante rappresenterebbe quindi una chance fondamentale per moltissimi piccoli che oggi, con un parto precedente alla 27-28esima settimana, hanno ancora poche probabilità di sopravvivere e crescere in salute.
Rischi e possibilità
I problemi da risolvere prima di un simile traguardo sono però ancora molti. Di ordine tecnico e scientifico, ma anche etico e legale. Come ricorda sul Guardian Elizabeth Chloe Romanis, della facoltà di legge dell’Università di Manchester, dal punto di vista legale e bioetico un utero artificiale funzionante rappresenterebbe un territorio ancora completamente inesplorato. “Le leggi oggi trattano bambini e feti in modo molto differente, e quindi la domanda è: un piccolo che cresce all’interno di un utero artificiale in quale delle due categorie rientra?”, riflette l’esperta. “Mi pare chiaro che questi aspetti etici e legali devono essere affrontati subito, prima che l’utero artificiale diventi realtà”.
Se per ora non ci sono ancora informazioni precise su come sarà fatto il nuovo utero artificiale, quel che è certo è cosa non sarà. Un sistema per crescere artificialmente la vita umana dal concepimento fino alla nascita, come negli esempi che citavamo all’inizio presi dal mondo della fantascienza, è assolutamente impensabile con le tecnologie e le conoscenze odierne. Un utero artificiale oggi può avere una serie di utilizzi ben definiti: supportare i nati molto prematuri (intorno alla 22esima settimana) che oggi hanno scarse possibilità di farcela, e rendere possibili operazioni prenatali che oggi vanno ritardate fino alla nascita, e che in futuro potrebbero invece essere svolte prelevando il feto, mantenendolo in vita nell’utero artificiale per il tempo necessario all’intervento, e poi reinserendolo nel grembo materno una volta risolto il problema. Per vedere uomini creati completamente in laboratorio, invece, ci sarà da attendere ancora bel po’.
Via: Wired.it
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