208 giorni. 5mila ore di sudato lavoro in laboratorio. Tanto pensano di impiegare i ricercatori dell’ Università di Glasgow, guidati da Lee Cronin, per creare la vita partendo da zero. Niente costituenti di batteri o microrganismi simili, ma solo materia completamente inanimata, mescolando insieme gli elementi di base, cioè gli atomi. Come fa notare New Scientist, se i piani dei ricercatori dovessero andare in porto, lo sapremmo nel giro di soli 7 mesi.
I ricercatori britannici non sono certo i primi a inseguire il sogno di ricreare la vita. Lasciando da parte le ultime novità in fatto di vita sintetica di Craig Venter, i primi a cimentarsi nell’impresa furono Stanley Miller e Harold Urey dell’ Università di Chicago, nel 1952. I due ricercatori ricrearono in laboratorio le condizioni dell’ atmosfera primordiale (un misto di vapore, idrogeno, metano e ammoniaca) che fecero poi attraversare da scariche elettriche. Andando a spulciare nelle beute qualche giorno dopo, i due trovarono piccole quantità di composti organici. Erano riusciti a produrre dal niente i mattoni delle proteine: gli amminoacidi, dimostrando come nell’Universo primordiale simili condizioni abbiano potuto dare origini ai primi, deboli, vagiti di vita. Quello studio era una pietra miliare, ma diceva ancora troppo poco. Mancava, e manca tuttora, il salto tra la materia inanimata che costituisce la materia biologica e la vita stessa.
“La complessità, anche nelle più semplici forme di vita, non può essersi originata dal nulla”, ha dichiarato Cronin, ipotizzando che livelli chimici più semplici capaci di vita autonoma debbano essere esistiti in passato. Ma più che determinare il modo in cui la vita ha avuto origine, il ricercatore britannico ha in mente di fare qualcos’altro: indurre la materia inanimata a comportarsi come materia animata, per identificare quelle strutture minime capaci di evolvere autonomamente.
Gli scienziati hanno stilato le caratteristiche che un sistema capace di vita autonoma dovrebbe avere. Primo: dovrebbero essere molecole tra loro correlate e capaci di codificare un qualche tipo di informazione, trasmissibile in modo ereditario; secondo, dovrebbero essere parte di un metabolismo; terzo, dovrebbero essere in grado di formare spazi definiti in cui realizzare tutte le reazioni chimiche necessarie, senza influenze dall’esterno.
I mattoni che i ricercatori di Glasgow stanno tentando di mettere insieme sono ossidi di metallo, come tungsteno, vanadio e molibdeno. Ci suonano strani come pilastri della materia vivente, abituati come siamo a pensare solo al carbonio e all’azoto. Eppure, sotto specifiche condizioni, questi composti danno origine a poliossometallati, che a loro volta possono agire come una sorta di stampi per la formazione di altre strutture simili. Un’analogia con quello che avviene tra dna e proteine, dove i primi gettano informazioni per le seconde.
Lo scorso anno, tramite tecniche simili, i ricercatori sono riusciti a creare una molecola grande quanto una proteina e con funzioni che ricordano quelle di alcuni enzimi. Inoltre i poliossometallati in alcuni casi danno origine anche a strutture che da lontano ricordano le membrane cellulari.
Nelle 5mila ore stabilite, i ricercatori cercheranno di capire se tutto questo può effettivamente comportarsi come una forma, molto primordiale, di vita. Magari in grado di evolversi. Se ci riuscissero? Dimostrerebbero che quel che chiamiamo vita non è prerogativa delle strutture basate sul carbonio, ma il risultato di principi chimici più generali. “ Non si tratta solo di geni capaci di autoreplicarsi, ma di materia capace di farsi da sola”, ha concluso Cronin.
Riferimenti: Wired.it