Ogni anno in Italia più di 500 mila pazienti ricoverati negli ospedali vengono colpiti da setticemie, polmoniti e infezioni. Come dire che in corsia circa il sei per cento su nove milioni e mezzo di pazienti, entrato in ospedale senza lamentare una malattia di questo tipo, si ammala proprio dopo il ricovero. Non solo: il tre per cento dei pazienti in seguito ne muore. È il quadro dipinto dal primo “Progetto nazionale per le sorveglianze batteriche in ambito comunitario e ospedaliero” condotto in 50 centri ospedalieri su circa seimila pazienti. L’indagine è stata coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità con la supervisione di un Comitato scientifico in rappresentanza della Federazione delle società italiane di microbiologia ed è il frutto di un cofinanziamento del Ministero della salute e della Pfizer Italia. Polmoniti, setticemie e infezione dovute all’uso del catetere venoso sono le patologie che maggiormente colpiscono gli italiani proprio in occasione di un’ospedalizzazione. Se ne ammalano in media dieci italiani su cento ricoverati. I principali colpevoli sono tre specie batteriche, microrganismi refrattari e resistenti a una gran parte degli antibiotici ad ampio spettro. Pseudomonas aeruginosa, Staphilococcus aerus ed Escherichia coli, questi i nomi delle peggiori “bestie” responsabili di oltre la metà di queste malattie: 2.365 infezioni su un totale di 4.000. I tre microrganismi sono responsabili da soli del 35 per cento delle setticemie, del 17 per cento delle polmoniti, e del 35 per cento delle infezioni legate all’uso del catetere endovascolare. “Per questo motivo”, afferma Antonio Cassone, coordinatore del progetto e direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss, “è di fondamentale importanza fare un uso corretto e mirato delle terapie antibiotiche, ottenere una rapida e specifica diagnosi microbiologica, mettere a punto vaccini e nuovi farmaci e intensificare la teranostica, intesa come strategia che accoppia terapia e diagnostica. Con questo progetto ci eravamo proposti due essenziali obiettivi: comprendere quali sono i principali responsabili delle infezioni in ambito ospedaliero e in che misura i batteri che causano queste patologie sono resistenti agli antibiotici. Risultato che abbiamo ottenuto, perché lo studio ci ha fornito per la prima volta una risposta a livello nazionale”. Le vittime preferite delle infezioni sono gli uomini, che rappresentano il 61 per cento, soprattutto nella fascia d’età compresa tra i 50 e i 70 anni. La zona geografica più colpita è invece il Mezzogiorno, dove ad ammalarsi in ospedale è il 48 per cento dei pazienti, seguito dal Nord con il 30 per cento e dal centro con il 22. “Se il 43 per cento dei pazienti entra in ospedale per trattare una grave infezione batterica”, va avanti Cassone, “il 57 per cento ne rimane vittima proprio in corsia dove era ricoverato per farsi curare un’altra patologia”. Come dire che in molti casi l’ospedale piuttosto che curare fa ammalare. E le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che la maggior parte dei batteri colpevoli di queste infezioni sta sviluppando una forte resistenza all’azione degli antibiotici. Ma quali sono i reparti maggiormente colpiti da questo tipo di infezioni? “Senz’altro la terapia intensiva, dove la mortalità per una malattia infettiva raggiunge anche il 25 per cento dei pazienti”, risponde Giuseppe Nicoletti, Ordinario di microbiologia dell’Università di Catania e responsabile per il Sud del Progetto. “Qui a farla da padroni sono Pseudomonas aeruginosa, Staphilococcus aerus e l’Acinetobacter spp, da soli colpevoli di larga parte delle infezioni alle vie urinarie, polmoniti e setticemie riscontrate in questo reparto”.“Quello dell’antibioticoresistenza è un annoso problema, alla cui base vi sono essenzialmente due ragioni, che questa ricerca tenta di risolvere: oltre la metà delle infezioni del tratto respiratorio viene curata con antibiotici che combattono esclusivamente batteri, quando invece a causare queste patologie è in molti casi un virus”, continua Nicoletti. “Proprio il cattivo impiego delle terapie spiega, dunque, come mai si sviluppi una resistenza a un farmaco somministrato in modo del tutto inappropriato. In secondo luogo, la terapia fallisce nel 20 per cento dei casi perché il malato non si cura come dovrebbe e interrompe o salta la terapia prima ancora che sia terminata”. Con il risultato che oramai più dell’80 per cento dei pazienti è resistente ad antibiotici di largo uso, come ad esempio l’oxacillina, e che solo per alcuni ceppi di antibiotici esiste il vaccino in grado di combatterli. Nonostante i primi risultati, il progetto coordinato dall’Iss andrà avanti. Finora ha preso in considerazione seimila pazienti, entro l’anno si prevede di realizzare l’isolamento di circa diecimila ceppi batterici, grazie alla collaborazione dei laboratori di microbiologia ospedalieri e accademici sparsi su tutto il territorio nazionale. “Indagini di questo tipo sono essenziali, perché non esauriscono il loro raggio di azione al campo delle ricerca ma forniscono informazioni ai medici curanti che sono così in grado di conseguire un importante risultato concreto: la salute dei pazienti”, conclude Giovanni Fadda, dell’università Cattolica di Roma, coordinatore per il Centro Italia dello studio.