La struttura delle nanoparticelle d’oro non è più un mistero. La forma e la dimensione di questi minuscoli aggregati di atomi, utilizzati come traccianti per rivelare la presenza di proteine o di Dna, oltre che in numerose altre applicazioni, sono state descritte per la prima volta dai ricercatori della Stanford University (California), che hanno pubblicato il loro studio sull’ultimo numero di Science. Le osservazioni sono state possibili grazie alla cristallografia a raggi X con risoluzione di 1,1 ångstrom (10-10 metri).
L’oro viene utilizzato per la sua scarsa reattività, ma la tendenza dei suoi atomi a formare legami fra loro comporta alcuni accorgimenti: per impedire alle particelle di aggregarsi, la loro superficie deve essere ricoperta da uno strato di molecole protettive. Solitamente vengono utilizzati i tioli, composti che contengono zolfo, uno dei pochi elementi che si legano facilmente al metallo nobile. Le molecole protettive hanno anche la fondamentale funzione di legare i marcatori fluorescenti che consentono la rilevazione delle particelle al microscopio. Nessuno però, prima d’ora, aveva fornito una descrizione precisa della struttura di questi microscopici strumenti da laboratorio.
I ricercatori hanno potuto stabilire che ciascuna nanoparticella è costituita da piccole sfere di 102 atomi di oro, rivestite da un singolo strato di 44 molecole di acido p-mercapto-benzoico (p-Mba) che contengono gli atomi di zolfo. Gli atomi d’oro si dispongono in modo concentrico: al centro vi è un grosso nucleo a forma di decagono circondato da due strati di 15 atomi ciascuno, disposti a spirale. I gruppi con lo zolfo si legano con gli atomi dei gusci, che interagiscono debolmente con il “grande cuore”, e tra loro, formando uno strato superficiale rigido. La struttura della nanoparticella è chirale, ossia ne esistono due tipi, speculari l’uno rispetto all’altro (enantiomeri), caratteristica dovuta alla disposizione degli atomi di oro rispetto ai gruppi sulfurei. La natura discreta delle particelle, ipotizzano infine i ricercatori, potrebbe essere spiegata dalla vicinanza dei gusci di 58 elettroni.
“I chimici hanno lavorato per anni con queste particelle senza avere una conoscenza reale della loro struttura”, ha affermato Robert Whetten del Georgia Institute of Technology di Atlanta. La scoperta potrà facilitarne l’utilizzo in laboratorio e aiutare i ricercatori a individuare, per esempio, la loro eventuale tossicità. (s.s.)