Lo bevevano i sumeri, lo bevevano i greci e lo beviamo ancora oggi: il vino è un evergreen che, secondo gli studiosi, ha origini risalenti a circa diecimila anni fa, quando si osservò la fermentazione spontanea dell’uva nei contenitori in cui era conservata. Le prime viticolture documentate risalgono al 1700 a.C.,un periodo più o meno contemporaneo alla cantina scoperta da Andrew Koh e dai suoi colleghi della Brandeis University presso il sito archeologico di Tel Kabri in Israele, vicino al confine con Siria e Libano.
La scoperta, descritta su Plos One, risale all’estate del 2013 quando, durante gli scavi intorno a un palazzo cananeo, gli archeologi si sono imbattuti in una stanza contenente quaranta giare alte un metro che una volta contenevano vino, per un totale di circa duemila litri. L’analisi delle giare, svolta attraverso cromatografia e spettrografia di massa, ha mostrato la presenza di acido tartarico (un costituente del vino), confermando la natura del contenuto. In tre delle quaranta giare però non c’era traccia di acido siringico, prodotto della decomposizione della sostanza che dona il colore rosso al vino (la malvidina), il che lascia presupporre che si trattasse di vino bianco.
I risultati hanno poi mostrato segni della presenza di diversi additivi naturali, come acido oleanolico, miele, resine (tra cui quella di pino, dotata di un potente effetto antibatterico), ginepro, menta, mirto e cannella, oltre a tracce di cedro (probabilmente dovute al legno usato durante la pressatura dell’uva). Durante gli scavi, gli archeologi hanno osservato una particolare disposizione delle giare all’interno della cantina, ordinate in modo che più vicine all’ingresso ci fossero quelle con il vino già “lavorato” (a cui erano stati aggiunti tutti gli additivi), mentre più lontane, vicino le pareti esterne, quelle con il vino “semplice” (con la resina). Questo potrebbe far presupporre la presenza di un addetto alla mescitura del vino, che aggiungeva aromi e sapori solo alle giare che si sarebbero utilizzate di lì a poco – magari per evitare che si rovinasse o si depositassero sul fondo gli elementi aggiunti – per cene o banchetti.
“Se perfino i faraoni e i re dell’epoca volevano il vino prodotto in queste zone”, sottolinea Koh, “doveva essere davvero buono”. Oggigiorno, Israele non è certo un territorio famoso per la produzione vinicola, soprattutto a causa dall’assenza di vigne autoctone. Quelle attuali sono infatti di origine francese, poiché nel territorio, dopo la conquista islamica del VII secolo d.C., non è stata più coltivata uva fino al XIX secolo, quando il barone Edmond de Rothschild la importò da Bordeaux ripristinando la viticoltura. Tuttavia, l’utilizzo di uve francesi, evolutesi in presenza di un clima diverso e sottoposte alle correnti atlantiche, non è stata la scelta migliore per questo terreno, perciò una delle speranze dei ricercatori per il futuro è di riuscire a isolare il Dna del vino di Tel Kabri per poter scoprire, e magari clonare, la tipologia di uva presente durante la media Età del bronzo, quando il vino di queste regioni era il più richiesto.
Riferimenti: Plos One doi:10.1371/journal.pone.0106406
Credits immagine: Plos One