Agli errori che insorgono durante il processo di replicazione del nostro materiale genetico, il dna, si devono circa due terzi delle mutazioni che causano il cancro. Un’imprevedibilità inevitabile, contro la quale nulla possiamo fare, e che caratterizza la natura stessa delle cellule. Perché gli errori esistono, e il macchinario cellulare, per quando efficiente, non è perfetto e normalmente commette errori. Senza che sia spinto a farli dall’ambiente, né li abbia ereditati. E gli errori contribuiscono alla trasformazione di una cellula da normale a cancerosa. A sostenerlo, due anni dopo il paper che fece discutere media e addetti ai lavori, generando non poca confusione, è un nuovo studio a firma di Cristian Tomasetti, biostatistico italiano del Johns Hopkins Kimmel Cancer Center e della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health e Bert Vogelstein, genetista codirettore del Ludwig Center del Johns Hopkins Kimmel Cancer Center. Una ricerca destinata a far riflettere, che ricorda ancora una volta quanto sia importante la prevenzione, su tutti i fronti.
Ma non possiamo comprendere il lavoro di Tomasetti e Vogelstein senza riavvolgere un attimo i fili e ripercorrere brevemente qualche concetto di biologia e gli studi precedenti dei due.
Partiamo dalla biologia. Le nostre cellule, quando si replicano, sono chiamate a duplicare il loro contenuto di dna, così che le cellule figlie ricevano tutte le istruzioni necessarie per svilupparsi da sole. Durante il processo di replicazione del dna può accadere – e accade – che questa non sia perfetta: il dna non viene copiato in maniera fedelissima, ma possono essere compiuti degli errori che cambiano la sequenza genetica. Alcuni errori vengono riparati, altri no. Nella gran parte dei casi questi errori non hanno conseguenze, ma in alcuni possono capitare all’interno di geni chiave per la replicazione cellulare, sovvertendone il funzionamento. Ne consegue che più una cellula si replica, più il tessuto di cui fa parte si rinnova, maggiore è la probabilità di accumulare questi errori di copiatura. Queste mutazioni casuali – e perché possono colpire ovunque e perché non dipendono da fattori diversi dalla natura cellulare – possono aiutare la trasformazione di una cellula da normale a tumorale, che in estrema sintesi è una cellula impazzita, che si replica a dismisura.
Veniamo invece ai lavori precedenti. Nel loro studio del 2015 Tomasetti e Vogelstein avevano cercato di capire perché, negli Usa, alcuni tipi di cancro fossero più frequenti di altri. Per farlo avevano confrontato l’incidenza di alcuni tumori con il numero di divisioni cellulari dei tessuti colpiti dal cancro stesso, trovando una correlazione: il rischio di sviluppare un tumore in un tessuto era maggiore se le cellule di quel tessuto si replicavano di più. Una correlazione che secondo i ricercatori permetteva loro di spiegare perché alcuni tumori fossero più frequenti di altri, per esempio quello al colon più di quello al cervello. La risposta andava ricercata nel maggior tasso di divisione delle cellule di un tessuto, e quindi nella probabilità maggiore di accumulare errori di copiatura nel dna e, in ultima analisi, di sviluppare mutazioni dannose, utili alla trasformazione tumorale. “Il 65% delle differenze nel rischio di cancro nei diversi tessuti possono essere spiegati dal numero totale di divisioni di cellule staminali in questi tessuti”, scrivevano i ricercatori sul paper del 2015.
Nel nuovo studio i due scienziati hanno cercato di misurare quale frazione delle mutazioni nei tumori fosse dovuta a errori di copiatura del dna e di capire se quanto osservato per gli Usa valesse anche fuori. Un modo dunque per pesare quel terzo fattore, diverso da quelli ambientali e di stili di vita – come fumo e obesità – o ereditari quali, per esempio, la presenza di mutazioni nei geni Brca1 e Brca2. Per farlo i due hanno messo insieme una mole enorme di dati: quelli relativi al sequenziamento genico, ai fattori epidemilogici, ai fattori ambientali, e alle conoscenze in materia di ereditarietà e cancro. Tutto questo analizzando i dati relativi al rischio di 17 tipi di cancro in 69 paesi (inclusi anche alcuni, come prostata e cancro al seno prima non considerati), rappresentanti nel complesso i due terzi della popolazione mondiale.
I risultati delle analisi hanno sostanzialmente replicato quelli dello studio precedente. La correlazione tra tumori e divisioni cellulari è confermata anche al di fuori degli Usa per i 17 tumori studiati, a prescindere dall’ambiente e dallo sviluppo socioeconomico dei diversi paesi. Inoltre, combinando i dati di sequenziamento genico ed epidemiologico per 32 tipi di tumori, gli scienziati hanno mostrato che in media circa i due terzi delle mutazioni (66%) sono attribuibili a mutazioni random di copiatura del dna, poco meno di un terzo circa sono dovute a fattori ambientali o cattivi stili di vita, e una piccola parte (5%) sono ereditari.
Per alcuni tipi di cancro questo contributo – quello delle mutazioni casuali – pesa di più, per altri meno. Nel cancro al pancreas, per esempio, le mutazioni critiche per lo sviluppo tumorale nel 77% dei casi sono dovute a mutazioni random di copiatura del dna, il 18% a fattori ambientali e il 5% all’ereditarietà. Percentuali praticamente ribaltate nel caso di tumore ai polmoni: qui l’ambiente – soprattutto il fumo – è responsabile del 65% delle mutazioni e solo il 35% invece è dovuto ai cosiddetti copying errors (in questo caso, riferiscono i ricercatori, il contributo genetico è trascurabile, sebbene non sembrerebbe inesistente).
Tirando le somme, lo studio ci dice almeno un paio di cose. Da una parte sottolinea il peso delle mutazioni inevitabili e casuali nel dna come fattori che possono favorire l’insorgenza di cancro, insieme ai fattori ambientali e genetici. Dall’altra ricorda che questo è, appunto, uno dei fattori, ma che non cancella gli altri. “Dobbiamo continuare a incoraggiare le persone a evitare gli agenti ambientali e gli stili di vita che aumentano il rischio di sviluppare mutazioni cancerose”, ricorda Vogelstein, aggiungendo quanto siano necessari al tempo stesso nuovi metodi di diagnosi precoce, perché, conclude: “I tumori continueranno a verificarsi, non importa quando sia perfetto l’ambiente in cui viviamo”.
Un concetto ribadito dai due ricercatori anche in chiusura del paper: “La prevenzione primaria [quella che si attua evitando cattivi stili di vita ed esposizione ambientale, nda] è il modo migliore per ridurre le morti di cancro. Riconoscere un terzo contribuente alle mutazioni cancerose – le mutazioni casuali appunto – non diminuisce l’importanza della prevenzione primaria ma enfatizza il concetto che non tutti i tumori possono essere prevenuti evitando i fattori di rischio. Fortunamente, la prevenzione primaria non è il solo tipo di prevenzione che esiste e può essere migliorata in futuro. La prevenzione secondaria, come la diagnosi e l’intervento precoci, possono salvare la vita. Per tumori in cui tutte le mutazioni sono il risultato di mutazioni casuali, la prevenzione secondaria è la sola opzione”.
Via: Wired.it