Pfas è un acronimo che la gente nelle province di Padova, Verona e Vicenza ha imparato a conoscere bene. Sta per sostanze per- e polifluoro alchiliche (Pfas), un ampio gruppo di composti contenenti fluoro, sintetizzate dall’uomo resistenti al calore, all’acqua e agli oli. Proprietà che li rende utilizzabili in vari campi: dagli involucri per cibi, alle schiume anti-incendio, ai vestiti impermeabili. In Veneto se ne parla già da un po’ in riferimento alla contaminazione di acque sotterranee, superficiali e potabili. Queste sostanze sono sotto monitoraggio della Commissione europea, sono molto persistenti nell’ambiente e anche nel corpo, e sotto osservazione per i loro effetti sulla salute. Di Pfas si torna a parlare in occasione della pubblicazione di un paper su Journal of Environment Science and Technology, dove un gruppo di ricercatori racconta di essere riuscito a mettere a punto un metodo per tracciare la presenza di questi composti nel corpo, per ora dei topi.
Come hanno fatto a tracciare i Pfas
Il metodo degli scienziati dell’University of Alabama at Birmingham’s School of Medicine e della University of Notre Dame non è così rivoluzionario, ma sembra funzionare. Di fatto, raccontano, i ricercatori hanno sostituito uno degli atomi di fluoro dei Pfas con un atomo di fluoro radioattivo (il fluoro-18 usato anche nella Pet, per intendersi), per vedere che fine facesse una volta all’interno del corpo di alcuni topi. Una sorta insomma di tracciante, grazie a cui è stato possibile osservare come i Pfas si localizzassero in tutti gli organi testati – dal fegato, allo stomaco, ai polmoni, alle ossa delle gambe, al rene, al cuore, alla pelle, ai muscoli al cervello – e che le concentrazioni maggiori dei Pfas si avessero a livello del fegato e dello stomaco.
Le applicazioni
L’esperimento, continuano i ricercatori, apre le porte a possibili sperimentazioni su volontari umani per capire esattamente dove vadano a finire i Pfas una volta introdotti nel nostro corpo, dove possono persistere a lungo e accumularsi. “Possiamo farlo dal momento che piccole quantità dei composti sono facilmente misurabili e la radioattività decade velocemente”, ha commentato Graham Peaslee della University of Notre Dame, tra gli autori del paper. Ma le speranze sono anche quelle di poter utilizzare la tecnologia del tracciamento radioattivo a fini ambientali, come racconta Suzanne Lapi della University of Alabama, a capo del team: “Per esempio potremmo marcare una quantità d’acqua con la nostra sostanza radioattiva, sottoporla a filtraggio e altre tipologie di decontaminazione e vedere effettivamente quanto e come possiamo estrarre quei composti dalle acque”.
Fonte: Journal of Environment Science and Technology