L’autofagia può essere davvero il nuovo ‘tallone d’Achille’ del cancro?

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L’autofagia (“mangiare se stesso”, termine derivante dal greco e coniato da Christian de Duve nel 1963), premiata con il Nobel per la Medicina nel 2016, è un processo biologico fondamentale di sopravvivenza cellulare, grazie al quale la cellula sacrifica alcune sue parti degradandole per riciclarne i componenti e fronteggiare particolari situazioni fisiologiche o di stress ambientale, come ad esempio carenza di nutrienti. Dal punto di vista evolutivo è un processo altamente conservato, presente cioè dai lieviti fino alle piante e agli animali e consente l’eliminazione di proteine a lunga emivita e organelli intracellulari, attraverso la formazione di vescicole che sequestrano il materiale citoplasmatico da degradare e riciclare poi all’interno dei lisosomi.

L’autofagia è utilizzata di continuo dalle cellule: ne sono esempi classici il rimodellamento cellulare che si verifica durante lo sviluppo embrionale o il controllo delle infezioni virali e batteriche da parte dell’immunità innata. Inoltre l’autofagia agisce anche come meccanismo anti-invecchiamento cellulare, in quanto consente l’eliminazione di membrane, proteine e organelli danneggiati dai radicali liberi dell’ossigeno che si accumulano con l’avanzare dell’età. Allo stesso tempo però l’alterazione del suo normale funzionamento può accompagnare o addirittura essere responsabile dello sviluppo di numerose patologie, quali le malattie neurodegenerative, le cardiomiopatie e il cancro.

Il ruolo dell’autofagia nel cancro è complesso; da un lato, l’autofagia infatti nelle prime fasi della trasformazione neoplastica può agire come soppressore tumorale prevenendo l’accumulo di proteine e organelli danneggiati e specie reattive dell’ossigeno che favoriscono le mutazioni al DNA. Dall’altro lato l’abilità dell’autofagia di sostenere la sopravvivenza cellulare in condizioni ambientali sfavorevoli, quali in mancanza di nutrienti o di ossigeno, condizioni estremamente frequenti in un tumore in crescita, potrebbe favorire la sopravvivenza delle cellule tumorali. I tumori quindi sfruttano l’autofagia a proprio vantaggio, per promuovere la propria sopravvivenza attraverso la autoproduzione di substrati metabolici necessari per il sostentamento e la diffusione del tumore stesso. Come afferma Piergiuseppe Pelicci, direttore Ricerca dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano, “L’autofagia è il possibile nuovo ‘tallone d’Achille’ contro il cancro”. “C’è un momento – osserva Pelicci – in cui il tumore è fragile perché si trova in una situazione in cui scarseggiano i nutrienti e in cui è a rischio la sopravvivenza della cellula tumorale. Succede quando fa metastasi. Questo è il momento di massima fragilità. E in quel momento l’autofagia è importante per la cellula tumorale. Impedirla diventerà la modalità con cui fermare questo processo”.

La scoperta del ruolo dell’autofagia nei tumori ha già portato finora allo sviluppo di nuovi farmaci antitumorali molto promettenti. Recentemente è stato scoperto un nuovo meccanismo biologico che potrà essere di grande utilità nella terapia farmacologica del melanoma, tumore maligno della pelle la cui incidenza negli ultimi anni è in continua crescita, che coinvolge appunto il processo di autofagia. Lo studio, condotto presso le Università di Salerno e di Napoli, coordinato da Simona Pisanti e a cui ho partecipato, è stato appena pubblicato su Cell Death and Differentiation, rivista del gruppo Nature.

Nello studio abbiamo individuato un nuovo meccanismo biologico attraverso il quale è possibile agire sul processo autofagico messo in atto dalle cellule tumorali come meccanismo di sopravvivenza e resistenza farmacologica ai chemioterapici. Il melanoma è caratterizzato da elevati livelli di autofagia basale che rendono il tumore più aggressivo, più resistente alla chemioterapia e associato ad una prognosi peggiore e ad una maggiore mortalità. Lo studio in oggetto ha permesso di individuare un nuovo meccanismo biologico che, se specificamente attivato all’interno della cellula tumorale, è in grado di agire sul processo autofagico protettivo bloccandolo e inducendo di conseguenza la morte cellulare e quindi la riduzione e l’eliminazione del tumore. In sintesi, si tratta di indurre contemporaneamente l’autofagia a monte, spingendo la cellula a formare vescicole autofagiche di autodegradazione, bloccandone però il completamento a valle, quando ormai la cellula raggiunge un punto di non ritorno che non le consente più di recuperare e quindi sopravvivere, rendendo così inevitabile la sua morte come evento conclusivo.

Nello studio abbiamo inoltre individuato una nuova molecola farmacologicamente attiva, l’isopenteniladenosina, in grado appunto di modulare tale processo ed avere un attività antitumorale specifica nel melanoma. Si tratta ovviamente di uno studio preclinico condotto in laboratorio, ed ulteriori ricerche saranno necessarie per consentire lo sviluppo di questa molecola o di altre molecole simili con lo stesso meccanismo d’azione, come farmaci innovativi da utilizzare da soli o in combinazione con altri chemioterapici già in uso per il melanoma o con l’immunoterapia, nuova frontiera nel trattamento di questo tumore.

Riferimenti: Ranieri R, Ciaglia E, Amodio G, Picardi P, Proto MC, Gazzerro P, Laezza C, Remondelli P, Bifulco M, Pisanti S. “N6-isopentenyladenosine dual targeting of AMPK and Rab7 prenylation inhibits melanoma growth through the impairment of autophagic flux” Cell Death Differ. 2017 Oct 13;(0).

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