Cosa si rischia ad abbandonare la ricerca su Parkinson e Alzheimer

memoria
(Credits: NICHD/Flickr CC)
memoria
(Credits: NICHD/Flickr CC)

“A seguito di un recente lavoro di revisione dei nostri progetti, abbiamo deciso di terminare i nostri sforzi nella ricerca di base nel campo della neurologia e nello sviluppo iniziale di farmaci, e di riallocare i fondi in aree dove abbiamo maggiore leadership scientifica, il che ci consentirà di aumentare il nostro impatto sulla vita dei pazienti” . Tradotto dall’aziendalese: non conviene più, dal punto di vista economico, lavorare a farmaci per il trattamento di malattie come il Parkinson o l’Alzheimer, quindi ci dedicheremo ad altro. Parole pesanti, tanto più che a comunicarle, in una mail ufficiale inviata a Npr, è stata Pfizer, colosso del farmaco, che appena due anni fa aveva lanciato (assieme ad altre case farmaceutiche, industrie e con la partecipazione del governo statunitense) il Dementia Discovery Fund, un fondo di investimenti dedicato proprio allo sviluppo di farmaci per il trattamento della demenza. La notizia, com’era prevedibile, ha avuto un impatto immediato sia sul mercato – il valore delle azioni di Pfizer ha subito una flessione dopo l’annuncio – che sulle associazioni di pazienti, che si sono unanimemente dette “preoccupate e allarmate” dalla decisione di Pfizer, anche per il timore che altre aziende ne seguano l’esempio.

Qualche numero
Quantificare esattamente il numero di pazienti potenzialmente coinvolti non è semplice, dal momento che il comunicato di Pfizer parla genericamente di “neurologia”. Possiamo però considerare due tra le più comuni patologie neurologiche, ovvero le demenze (e in particolare l’Alzheimer) e il Parkinson.

Nel 2016, in tutto il mondo, si contavano circa 44 milioni di persone affette da demenza, e si stima che solo un paziente su quattro sia stato correttamente diagnosticato. La malattia è particolarmente comune nei paesi più sviluppati (Europa occidentale e nord America sopra tutti) e lo scenario potrebbe essere destinato a peggiorare, soprattutto a causa dell’allungamento della durata della vita e del conseguente invecchiamento della popolazione, dal momento che la demenza è prevalentemente un disturbo della terza età. Il morbo di Parkinson, invece, si stima colpisca tra 7 e 10 milioni di persone in tutto il mondo, con una prevalenza di circa 41 persone su 100mila dopo i 40 anni, il che rende la malattia il secondo disturbo neurodegenerativo più comune dopo l’Alzheimer.

Più subdoli degli altri
Per Parkinson e Alzheimer, come per la maggior parte dei disturbi neurodegenerativi, nonostante i grandissimi sforzi della ricerca biomedica, al momento non esiste nessuna cura. Almeno intesa come trattamento in grado di arrestare definitivamente la malattia e farne scomparire del tutto i sintomi. Perché questi disturbi sono così difficili da curare? “La ragione principale”, ci spiega Paolo Maria Rossini, direttore dell’Area neuroscienze alla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, “è il fatto che si tratta di disturbi che aggrediscono il sistema nervoso in modo silenzioso, molto prima che si inizino a manifestare i primi sintomi visibili. In parte il fenomeno è dovuto all’estrema plasticità del cervello: nei primi stadi di malattie di questo tipo, i neuroni sono in grado di riorganizzarsi e ‘nascondere’ così il disturbo. Quando questa operazione non viene più eseguita in modo efficiente, la malattia diventa patente. Ed è ovviamente ancora più difficile curarla”. A questo si aggiunge la difficoltà di trattare con un apparato complesso come il sistema nervoso centrale: “Dal punto di vista dell’eziologia, dei fattori di rischio, della diagnostica, del decorso”, prosegue Gianluigi Mancardi, presidente della Società italiana di neurologia e direttore della Clinica neurologica dell’Università di Genova, “le malattie neurodegenerative di solito sono multifattoriali ed estremamente complesse”.

Cosa abbiamo a disposizione
Ciò premesso, come trattiamo attualmente i pazienti che soffrono di queste malattie? È necessario fare un distinguo. “Il Parkinson”, spiega Mancardi, “è una patologia caratterizzata dalla mancanza di produzione di un neurotrasmettitore, la dopamina. Supplendo dall’esterno a questo deficit, si riesce a ridurre i sintomi e in qualche modo rallentare il progresso della malattia per un periodo relativamente lungo, dell’ordine di tempo di dieci anni”. Discorso diverso, invece, vale per l’Alzheimer, malattia che non è caratterizzata da un deficit biochimico integrabile dall’esterno, ma dalla formazione e dall’accumulo nel cervello di placche di una proteina, la beta amiloide. Il che rende la ricerca di un trattamento per la malattia ancora più complessa e delicata. Tanto che Joseph Belli, insigne neurologo e autore del libro In pursuit of memory – The fight against Alzheimer, ha recentemente ammesso che “gli attuali trattamenti per l’Alzheimer sono stati approvati, sostanzialmente, solo perché sono meglio di niente. Non c’è nient’altro in questo momento. Si tratta di farmaci scoperti negli anni settanta e ottanta, che cercano di mitigare i sintomi della malattia, ma non agiscono sui meccanismi biologici alla base del disturbo. Abbiamo scoperto che in circa sei pazienti su dieci questi trattamenti ritardano i sintomi di un tempo compreso tra sei mesi e un anno […] Il che, semplicemente, non è abbastanza”.

Cattive notizie, buone notizie
L’ultimo anno non è stato foriero di ottime notizie per quanto riguarda la ricerca di trattamenti per l’Alzheimer. In particolare, diversi trial clinici hanno dato esiti negativi: a febbraio, per esempio, i test di fase III condotti su una molecola, l’idalopirdina, sono falliti; stessa sorte è capitata ad altre molecole sperimentate da Merck e Accera. Il problema, insistono ancora gli esperti, sta nel fatto che la maggior parte degli studi e dei trial si concentrano su pazienti in cui la malattia è già in fase moderata o addirittura avanzata. Che, come abbiamo visto, sono molto difficili da trattare. Ma ci sono anche notizie più incoraggianti: “La ricerca, forse un po’ colpevolmente”, dice Mancardi, “si è focalizzata finora su pazienti già sintomatici. Ultimamente, per fortuna, il paradigma sta cambiando: ci si sta spostando su pazienti che non presentano i sintomi ma hanno esami di laboratorio alterati, e in cui quindi la malattia è probabilmente a uno stadio iniziale. Su questi pazienti, auspicabilmente, riusciremo ad avere dei buoni risultati: gli studi in corso sugli anticorpi monoclonali, per esempio, sembrano particolarmente promettenti”. E ancora: “Ci sono oltre 50 trial clinici in corso“, prosegue Rossini, “relativi a molecole che agiscono a vari livelli, dal blocco della formazione delle placche all’azione sulla proteina tau a meccanismi antiinfiammatori e antiossidanti”. Molti dei risultati di questi trial sono attesi per il 2023.

La ricerca deve andare avanti
Tornando al caso Pfizer, è bene ricordare che le case farmaceutiche, naturalmente, sono aziende a tutti gli effetti. E come ogni azienda scelgono il modello di business che ottimizza e massimizza i propri profitti. Ma è altrettanto importante sottolineare, parafrasando Orwell, che se tutte le aziende sono uguali, qualcuna è più uguale delle altre. Chi si occupa di sanità e salute, pur non essendo un ente filantropico, ha inevitabilmente un carico di responsabilità maggiore degli altri, e di questa responsabilità deve rendere conto ai pazienti e all’opinione pubblica in generale. “Nessuno sostiene che le aziende farmaceutiche debbano dedicarsi alla ricerca per spirito di filantropia”, fa notare in proposito Michael Hitzik in una column sul Los Angeles Times, “ma Pfizer, per esempio, si è mostrata particolarmente avversa al rischio, almeno nel contesto statunitense. È la seconda più grande azienda farmaceutica degli Stati Uniti per volume di vendite (dopo Johnson & Johnson) e, negli ultimi anni, sembra essersi dedicata più a operazioni finanziarie [finalizzate in particolare a risparmi fiscali, ndr] che alla ricerca nel campo biomedico”. E Rossini rincara la dose: “Non è pensabile che alle aziende farmaceutiche sia permesso abbandonare un settore di ricerca così importante, lasciando orfani decine di milioni di pazienti in tutto il mondo”, conclude l’esperto. “Sarebbe auspicabile l’istituzione, per esempio, di un’authority globale che vieti alle case farmaceutiche di abbandonare specifici campi di ricerca, indipendentemente dal margine di profitto che generano”. Una soluzione drastica che andrebbe contro il mercato, ma necessaria per il benessere globale?

Via: Wired.it

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here