Epidemia di orecchioni negli Usa, serve un terzo richiamo del vaccino?

via Pixabay

Dopo il morbillo, negli Stati Uniti ritornano anche gli orecchioni – termine tecnico parotite -, stavolta soprattutto fra soggetti vaccinati. Due le possibili spiegazioni. La prima possibilità è che la protezione immunitaria garantita dal vaccino diminuisca nel tempo. L’altra ipotesi è che il vaccino per gli orecchioni attualmente in uso non sia efficace nei confronti del virus, che nel frattempo si è modificato geneticamente, nel qual caso servirebbero nuovi vaccini più efficaci. Ad approfondire il tema è un nuovo studio condotto da Joseph Lewnard e Yonatan Grad della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston negli Stati Uniti, che hanno studiato l’efficacia e la durata della vaccinazione (il trivalente MPR, lo stesso utilizzato in Italia), dimostrando che l’ipotesi più probabile consiste nel calo della protezione immunitaria nel tempo. La ricerca è pubblicata su Science Translational Medicine. 

La parotite è una malattia infettiva causata da un virus a RNA, appartenente alla famiglia delle Paramyxoviridae (come il morbillo), il cui segno più evidente è la tumefazione delle ghiandole salivari, sotto una o entrambe le orecchie. La malattia, che si presenta solitamente in forma lieve e si risolve spontaneamente, può portare a complicanze temporanee o permanenti come sordità, infiammazione dei testicoli (orchite) o delle ovaie (ovarite), meningite o encefalite.

Per tali motivi in molti paesi, Italia compresa, la vaccinazione antiparotite è stata inserita nei programmi nazionali, nella maggior parte dei casi in combinazione con i vaccini per il morbillo e la rosolia (vaccino trivalente MPR). Ricordando che oggi è un requisito obbligatorio, nel nostro paese, questa vaccinazione, introdotta negli Stati Uniti nel 1967, ha consentito di ridurre drasticamente l’incidenza della malattia, che prima colpiva circa il 90% degli individui americani sotto i 20 anni.

Sono stati così compiuti significativi progressi per eradicare gli orecchioni, nonostante il verificarsi di periodiche epidemie. Una di queste, ad esempio, si è presentata tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, fra individui che avevano ricevuto una sola dose di vaccino. La somministrazione di una seconda dose, introdotta in quegli anni sia negli Usa che in Italia, ha permesso di ridurre questi episodi epidemici.

Tuttavia, negli Stati Uniti, a partire dal 2006 si è registrata una recrudescenza della malattia. Fra i più colpiti, vi sono stati giovani adulti, di età fra i 20 e i 29 anni, che avevano ricevuto la vaccinazione nelle due dosi. Questa fascia d’età è risultata più suscettibile alla malattia rispetto al passato: la percentuale del rischio, spiegano gli autori, è risultata pari a circa del 52% contro il 30% registrato negli anni ’90, sempre all’interno di questa stessa fascia d’età.

Così, questa nuova epidemia di una malattia che, già nel 2000, si riteneva di aver eradicato, ha sollevato negli Stati Uniti dubbi sull’efficacia del vaccino attualmente in uso. Il vaccino considerato, il trivalente MPR, è lo stesso impiegato in Italia e in molti paesi occidentali: si tratta di quello che contiene un ceppo attenuato del virus Paramyxovirus parotidis, isolato per la prima volta nella faringe della piccola Jeryll Lynn Hilleman, usato in combinazione con i vaccini per il morbillo e la rosolia.

Per chiarire le ragioni associate all’aumento della suscettibilità alla malattia nonostante la vaccinazione, Lewnard e Grad hanno condotto una meta-analisi, raccogliendo ed integrando i dati di sei diversi studi epidemiologici sull’efficacia del vaccino, svolti negli Stati Uniti e in Europa.
In particolare, gli autori hanno elaborato un modello di previsione sulla base di due possibili scenari: nel primo scenario veniva ipotizzata la diminuzione della protezione dal vaccino nel tempo, mentre nel secondo veniva ipotizzata una protezione parziale del vaccino in uso, tenendo conto della comparsa di nuove varianti virali non coperte dal vaccino. Le previsioni del modello sono state confrontate con i dati epidemiologici degli orecchioni nel 2006.

In base alla valutazione effettuata, il primo scenario portava alla previsione di una maggiore incidenza della malattia ad un’età media di circa 22 anni, che corrisponde proprio a quella degli studenti colpiti nel 2006. Il secondo scenario portava a prevedere un maggiore aumento della malattia in corrispondenza di un’età media di circa 14 anni, risultato che non spiegherebbe lo spostamento della maggiore incidenza verso età maggiori osservato nei recenti focolai epidemici.

Secondo i risultati, dunque, è più probabile che la recrudescenza sia dovuta a un calo nel tempo della protezione immunitaria del vaccino piuttosto che alla comparsa di nuovi varianti genetiche di virus non coperte dal vaccino in uso. Stando alle stime dei ricercatori, in un caso su 4 tale protezione durava circa otto anni a partire dall’ultima dose ricevuta, con un aumento della suscettibilità a contrarre il virus nei giovani, mentre calcolando la media su tutti i dati la durata era di 27 anni.

L’uso di routine di una terza dose di vaccino all’età di 18 anni potrebbe essere quindi la strategia idonea per controllare la diffusione del virus ed estendere la protezione nei giovani adulti, i gruppi di età più a rischio nei recenti focolai. Nonostante la mancanza di studi clinici, varie osservazioni suggeriscono l’efficacia di tale strategia. Ad esempio, spiegano gli autori, i giovani militari americani rappresentano una popolazione ad alto rischio sia per l’età sia perché condividono un ambiente lavorativo in stretto contatto, ma nessun focolaio epidemico è stato osservato tra di loro, dopo l’introduzione nel 1991 della somministrazione alle reclute di una terza dose di vaccino trivalente MPR. Inoltre, un recente studio osservazionale all’Università dell’Iowa negli Stati Uniti, dove si era verificato un focolaio, ha dimostrato che l’assunzione della terza dose del vaccino è associata ad una maggiore protezione dal virus degli orecchioni.

La protezione a lungo termine per adulti di età maggiore di 40 anni richiederebbe invece l’assunzione di richiami del vaccino ogni 10-20 anni. Occorreranno – concludono gli autori – ulteriori studi clinici per valutare i benefici della somministrazione di una terza dose del vaccino a 18 anni e di dosi di richiamo periodiche negli adulti.

Riferimenti: Science Translational Medicine

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