(Università di Tor Vergata) – Secondo una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Medicine i composti chimici prodotti dalla flora intestinale potrebbero essere utilizzati per individuare le prime fasi della steatosi epatica, una malattia del fegato spesso associata all’obesità, al diabete e alla cardiopatia ischemica.
Un team internazionale, guidato da ricercatori dell’Imperial College di Londra, dell’Università di Girona, dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e dell’Inserm di Tolosa, uniti in un consorzio europeo chiamato Florinash, ha studiato il legame tra le fasi iniziali della steatosi epatica (malattia del fegato grasso non alcolico o Nafld) e il microbioma intestinale, composto da innumerevoli batteri, virus e altri microrganismi che vivono nel nostro tratto digestivo.
La Nafld inizia con l’accumulo di grasso nel fegato e può portare a fibrosi e cirrosi, insufficienza epatica e cancro. Il fegato grasso aumenta inoltre il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Si stima che un adulto su tre possa avere steatosi epatica in fase iniziale e che i pazienti possano mostrare pochi o nessun sintomo fino a quando la malattia non è avanzata. Mentre la condizione avanzata può essere diagnosticata attraverso analisi del sangue ed ecografia, mancano test sensibili per le fasi iniziali della malattia che permettano di identificare chi è a rischio.
In questo studio, il consorzio europeo Florinash ha identificato un composto chiamato acido fenilacetico (PAA), prodotto dai batteri nell’intestino e la cui presenza nel sangue è stata collegata all’inizio della Nafld. I risultati suggeriscono che il PAA potrebbe potenzialmente essere usato come marcatore biologico in clinica; il campione ematico di un paziente potrebbe essere sottoposto a screening per PAA come segnale di allarme precoce per identificare chi ha segni iniziali steatosi epatica.
“Questo è un nuovo passo verso la comprensione dei meccanismi molecolari che coordinano il progressivo sviluppo della steatosi epatica nei pazienti obesi e fornirà nuovi biomarcatori e bersagli terapeutici. Si aprono importanti prospettive per interventi nutrizionali e farmacologici per affrontare l’epidemia di malattie dismetaboliche non trasmissibili quali diabete, steatoepatite non alcolica e aterosclerosi”, ha commentato Massimo Federici dell’Università di Roma Tor Vergata e Direttore del Centro Aterosclerosi del Policlinico Tor Vergata, che ha coordinato il lavoro con altri colleghi europei.
Un’ago chimico in un pagliaio microbico
Per identificare il marcatore di origine microbica il gruppo di ricerca, formato da scienziati e medici, ha esaminato i dati biologici raccolti da donne obese – inclusi campioni di sangue e urine, biopsie epatiche e campioni fecali – confrontando pazienti senza steatosi con pazienti affetti da steatosi epatica per cercare piccole variazioni tra i due gruppi.
Una delle principali differenze è stata la maggiore presenza di PAA, un composto prodotto dai batteri intestinali. I ricercatori hanno scoperto che l’aumentato livello di PAA era fortemente legato all’accumulo di grasso nel fegato.
La loro analisi ha anche rivelato un legame tra la presenza di steatosi epatica e fini cambiamenti nella composizione del microbioma stesso. Più la malattia era avanzata, più il numero totale di geni presenti nel genoma dei batteri intestinali cominciava a diminuire, una misura indiretta che il microbioma era meno complesso, cioè costituito da un minor numero di tipi diversi di batteri rispetto al microbioma di chi è in piena salute.
I ricercatori hanno già scoperto oltre 10 milioni di geni attivi legati ai microbi nel nostro intestino – 500 volte il numero di geni nel genoma umano – ma la loro funzione rimane in gran parte sconosciuta. Tuttavia, studi precedenti hanno dimostrato che il numero di geni microbici attivi diminuisce drasticamente con disturbi metabolici, come l’obesità. Nell’ultimo studio, il Consorzio Florinash ha rivelato come un simile collasso nella diversità del microbioma sia associato alla steatosi epatica, alla ridotta tolleranza ai carboidrati e all’insulino resistenza, tutte caratteristiche presenti nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 e associate anche all’aterosclerosi.
Riferimenti: Molecular phenomics and metagenomics of hepatic steatosis in non-diabetic obese women; Lesley Hoyles, José-Manuel Fernández-Real, Massimo Federici, Matteo Serino, James Abbott, Julie Charpentier, Christophe Heymes, Jèssica Latorre Luque, Elodie Anthony, Richard H. Barton, Julien Chilloux, Antonis Myridakis et al.; Nature Medicine