Il Nobel per la fisica a Donna Strickland e quello per la chimica a Frances H. Arnold sono la migliore risposta a chi ancora dubitasse della capacità delle donne di eccellere in ambiti scientifici. Eh già perché c’è ancora chi dubita. E se nessuno osa più parlare di inferiorità dell’intelligenza femminile, presunte differenze psico-cognitive di genere vengono ancora addotte per spiegare il motivo per cui solo poche donne intraprendono studi e carriere universitari nell’area STEM (Science Technology Engineerings Mathematics).
Lo ha fatto qualche giorno fa il fisico Alessandro Strumia che, intervenendo in un congresso sulla parità di genere nella fisica in corso al Cern, ha citato uno studio secondo cui – causa diversi livelli di testosterone – le donne sarebbero più brave degli uomini in attività che le portano a contatto con le persone piuttosto che con gli oggetti. E dunque più capaci nell’area non-STEM. Da qui, secondo il fisico italiano, deriverebbe l’assurdità delle politiche applicate da alcuni istituti di ricerca – l’INFN, in particolare – per incoraggiare le donne a proseguire nelle loro carriere. Secondo Strumia per le posizioni di rilievo, come quella da lui non ottenuta all’Infn ma assegnata invece a due ricercatrici, deve valere il criterio della meritocrazia, in base al quale – utilizzando alcuni parametri – le donne risulterebbero meno capaci.
La mediocrità è donna?
Illustre cattedratico dell’Università di Pisa, Strumia non è certo il primo, ma speriamo l’ultimo, uomo di scienza che esprime opinioni del genere ritenendo di avere “dati oggettivi” dalla sua parte. Nel 2005, l’allora rettore di Harvard Larry Summer suscitò non poche perplessità tra le sue colleghe accademiche affermando che “in molti diversi attributi umani, inclusa l’abilità matematica e scientifica, c’è una evidenza del fatto che sussiste tra i sessi una differenza nella variabilità attorno alla media. E questo è vero sia rispetto alle capacità che presumibilmente sono culturalmente determinate, sia rispetto a quelle che non lo sono”. In altre parole: le donne sono mediamente più brave ma non emergono dalla mediocrità, mentre gli uomini, che mediamente sono meno performanti, possono però raggiungere picchi di eccellenza (come del resto anche abissi di insufficienza) e sono quindi più performanti nella ricerca scientifica rispetto alle donne.
La risposta è: no
A smentire Summer e i suoi epigoni è una ricerca svolta dalla University of New South Wales (UNSW Sydney) pubblicata su Nature Communications qualche giorno prima dell’annuncio dei Nobel. Una meta-analisi che prende in considerazione le performance scolastiche e universitarie di 1,6 milioni di studenti e studentesse di 268 scuole di tutto il mondo. Come atteso – lo dicono tutte le statistiche mondiali – i voti delle ragazze sono risultati in media più alti di quelli dei loro compagni, e con una minore variabilità (differenza tra il voto più alto e quello più basso). Sorprendentemente, però, entrambe queste differenze di genere sono risultate minori nelle materie scientifiche che in tutte le altre, per esempio, l’inglese.
In definitiva, nelle materie STEM le prestazioni di maschi e femmine sono molto simili. Ma è invece nell’area umanistica che le differenze tra i due sessi sono significative, sia nella media sia nella variabilità. E in questo caso a essere svantaggiati sono gli uomini.
Più che la natura è la cultura
Secondo Rose O’Dea, Ph.D. student e autrice dello studio della UNSW di Sydney, l’orientamento delle ragazze verso carriere in ambiti umanistici sarebbe motivato dalla sensazione, confermata anche dai dati statistici, che in questi campi vi sia una minore competizione maschile. Ma contano anche aspetti psicologici e culturali: lo stereotipo ancora largamente diffuso secondo il quale le donne sarebbero meno portate per la matematica influisce sullo stesso modo di approcciarsi alla materia fin dalla più tenera età. Perché si tende a interiorizzare le percezioni degli altri come proprie e quindi ad allinearsi con gli stereotipi vigenti.
A tenere lontane le donne dalle carriere scientifiche, evidentemente, non è la “natura” ma la cultura dominante, e lo status quo: il fatto che negli altri campi ci siano meno uomini con cui competere. E per cambiare questa cultura e incoraggiare le ragazze a intraprendere carriere nella scienza e nella tecnologia servono nuovi modelli di riferimento. Figure scientifiche femminili che suscitino emulazione, come Donna Strickland e Frances H. Arnold, che con il loro lavoro provano che a una donna nessun traguardo può essere precluso nella scienza.
Foto: U.S. Air Force Photo by Susan A. Romano