Una sorta di microcapsula del tempo, un sito archeologico infinitesimale nel quale trovare reperti in grado di gettare nuova luce su eventi storici ancora avvolti nell’ombra. È il deposito di tartaro che si forma sui denti, umani o animali: al loro interno vengono intrappolate microsostanze che, se analizzate con gli strumenti adeguati, consentono di ricostruire in modo abbastanza preciso stile e abitudini di vita E questo è quanto ha fatto un gruppo di ricerca multidisciplinare, formato da storici e bioarcheologi dell’Università di York (UK) e del Max Planck Institute per la Scienza della storia umana di Jena (Germania), partendo da piccole microparticelle di lapislazzuli.
La collaborazione internazionale ha esaminato le formazioni di placca sui denti di uno scheletro femminile di epoca medioevale, sepolto nel cimitero del monastero di Dalheim, in Germania. Scoprendo appunto, intrappolate nei depositi di tartaro dei denti, diverse microparticelle di lapislazzuli, la pietra di colore blu intenso la cui polvere veniva utilizzata come pigmento per la decorazione delle miniature dei manoscritti più preziosi. “Questo significa – spiega a Galileo la bioarcheologa Anita Radini, Wellcome Trust research fellow dell’Università di York, che insieme a Monica Tromp firma il paper appena pubblicato su Science Advances – che la donna, forse una monaca, lavorava con pazienza e in modo continuativo alle illustrazioni degli antichi testi religiosi su pergamena. Una scoperta che getta nuova luce sul ruolo spesso misconosciuto del genere femminile in questa forma d’arte”.
Lapislazzuli nascosti nei denti
Per analizzare i depositi dentali, spiega la ricercatrice, è stato innanzitutto necessario “demineralizzare” il tartaro attraverso l’uso di una soluzione chimica a base di acido cloridrico. Con il classico microscopio a luce trasmessa, strumento usato per esempio nello studio dei pollini antichi, in grado di magnificare l’immagine fino a 1000 volte, gli studiosi hanno individuato un gran numero di particelle di colore blu, in zone diverse della bocca, il che – spiega la ricercatrice – mostra che la donna ha avuto a che fare con il pigmento con una certa frequenza nel corso della sua vita. “Purtroppo ci siamo resi conto che l’azione corrosiva dell’acido interveniva sulla colorazione”, prosegue Radini, “così abbiamo provato a rompere la placca con gli ultrasuoni”. Restava da identificare il minerale: poteva essere semplice azzurrite, assai più diffusa nell’Europa medioevale, dice la studiosa. Ma i diversi metodi spettrografici per l’analisi della struttura chimica e molecolare hanno invece dato una conclusione univoca: si tratta di lapislazzuli, pietra preziosa importata probabilmente dall’Afghanistan o dall’Egitto arabo.
Storie di pietre preziose e pittrici talentuose
Si trattava dunque di una donna, morta tra i 45 e i 60 anni di età tra il 1000 e il 1200, che più volte al giorno e per diversi anni è entrata in contatto con il pigmento. Forse era una miniaturista, che affinava il pennello tra le labbra per rendere più preciso il suo tratto. Di certo si tratta di una scoperta straordinaria: perché gli illustratori delle pagine di pergamena, per una forma di umiltà, molto difficilmente firmavano le loro opere d’arte. E questo è ancora più vero per le donne, il cui ruolo in questo settore è sempre stato poco valorizzato. “La monaca era dunque inserita in una vasta rete commerciale globale che si estendeva dalle miniere dell’Afghanistan alla comunità monastica nella Germania medievale, passando per le metropoli commerciali dell’Egitto islamico e della Costantinopoli bizantina”, spiega lo storico e coautore Michael McCormick della Harvard University. Il prezioso pigmento viaggiava migliaia di chilometri sulle rotte mercantili per finire nelle mani di una donna artista, e certamente di grande abilità: l’uso del pigmento blu oltremare a base di lapislazzuli era riservato, insieme all’oro e all’argento, solo ai manoscritti più lussuosi. “Solo i pittori di eccezionale talento potevano farne uso”, dice la storica Alison Beach della Ohio State University, che ha partecipato al progetto.
Una misteriosa artista
Il monastero di Dalheim, distrutto in un incendio nel 1244, non ha lasciato tracce scritte o reperti che possano aiutarci a identificare l’artista. “Ma qui abbiamo prove dirette di una donna, di una pittrice che usava un pigmento molto raro e costoso, e in un posto molto fuori mano”, dice Christina Warinner del Max Planck Institute, co-autrice del paper, “una storia che avrebbe potuto restare nascosta per sempre senza l’uso di queste tecniche. Chissà quanti altri artisti potremmo trovare nei cimiteri medievali, se solo esaminassimo la loro dentatura”.
Riferimenti: Science Advances
(Credits immagine di copertina: Monica Tromp)