Non è tutto oro ciò che luccica. Un detto quanto mai vero se si pensa che il bianco brillante dello yogurt o il marrone lucente del cioccolato possono essere l’effetto di nano-ingredienti, cioè additivi ingegnerizzati di dimensioni nanometriche capaci di migliorare il cibo. Alimenti poveri di sale o zucchero possono sembrare gustosi grazie alla presenza di nanoparticelle che stimolano le papille gustative della lingua. Anche la sensazione di sazietà dopo uno spuntino con un alimento dietetico può non essere reale ma il risultato di strategie che impiegano nano-additivi. Le nostre tavole ospitano inconsapevolmente moltissimi alimenti: le nanoparticelle nel cibo sono tante, per diversi motivi.
Nell’era del cibo biologico e, più in generale, della simpatia verso un’alimentazione e uno stile di vita naturali, la presenza di nano-ingredienti artificiali nei prodotti che consumiamo quotidianamente suona come un fulmine a ciel sereno. Il cibo è nanofood quando durante la coltivazione, la produzione, l’elaborazione o l’imballaggio ci si avvale della la nanotecnologia, scienza che progetta e realizza nanostrutture. Di queste ne sono state progettate tantissime, diverse per forma, composizione e funzione, ma tutte hanno almeno una dimensione nella scala “nano”, inferiore a 100 nanometri, dove un nanometro è l’unità di misura di lunghezza pari a un miliardesimo di metro.
Numerosi appaiono i vantaggi, sappiamo per esempio che l’uso delle nanotecnologie può migliorare la produttività agricola. Ma la pratica solleva anche diverse domande: il loro uso in campo aperto è sicuro? Le nanotech possono migliorare la conservazione degli alimenti, ostacolando la formazione di grumi, la crescita di batteri, l’ossidazione e ampliare l’uso di integratori alimentari, senza alterare il gusto dei cibi. Ma la salute dei consumatori e dei lavoratori è a rischio? Insomma, questa rivoluzione nanotecnologica a colpi di nano-ingredienti, è indolore?
I nanomateriali sono rientrati nella categoria “food approved” passando studi di sicurezza nella loro forma di macro-particelle. Ma a causa delle loro dimensioni, le nanoparticelle presentano proprietà chimico-fisiche diverse, e spesso anche imprevedibili, rispetto allo stesso materiale più grande. Le nanoparticelle hanno infatti una superficie esposta molto maggiore, e questo aumenta in modo esponenziale la loro reattività chimica e biologica.
Il caso del biossido di titanio
Non si può escludere che le nanoparticelle essendo così piccole e reattive introdotte come alimenti possano interagire con le cellule del nostro intestino. Come dimostra per esempio l’ultimo studio pubblicato da Maria Grazia Ammendolia e Francesco Cubadda dell’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato su Food and Chemical Toxicology, che indaga l’effetto delle nanoparticelle di biossido di titanio, nelle etichette alimentari indicato come E171, sulle cellule intestinali dei ratti. “Il biossido di titanio è un additivo alimentare usato in una varietà di prodotti confezionati per conferire il colore bianco. Queste nanoparticelle sono state oggetto di molti studi, in quanto appaiono associate a diversi effetti nocivi” spiega Ammendolia. “Nella nostra indagine – continua la ricercatrice – abbiamo riscontrato un aumento delle dimensioni dei villi intestinali dei ratti maschi trattati con le nanoparticelle rispetto alle femmine e ai ratti non trattati. Nei stessi ratti maschi si osservava anche un incremento del testosterone”. L’effetto osservato è sorprendente, sottolineano i due studiosi, dal momento che il trattamento è stato effettuato per pochi giorni e a una dose molto bassa. Dunque qualsiasi processo di proliferazione non fisiologica deve essere guardato con attenzione, dal momento che potrebbe portare a delle patologie.
Sulla base dello studio, concludono i ricercatori, si può ipotizzare un effetto modulante sul sistema endocrino che potrebbe comportare un rischio per la popolazione. In altri termini, le nanoparticelle potrebbero avere un effetto sulla produzione di ormoni. “Ma sono necessarie ulteriori ricerche per valutare l’effettiva portata di quanto da noi riscontrato in termini di impatto sulla salute umana”.
Sebbene la maggior parte degli studi sulle nanoparticelle nel cibo si concentri sul tratto gastrointestinale – la bocca, l’esofago, lo stomaco e l’intestino – altre indagini mostrano come, una volta inghiottite, le nanoparticelle possano oltrepassare l’intestino, raggiungendo il fegato, i reni, i polmoni, il cervello e la milza, attraverso il flusso sanguigno. Inoltre alcune ricerche sottolineano come non si possa escludere che alcuni materiali, in forma di nanoparticelle, possano penetrare nelle cellule del nostro organismo e interagire con molecole come il DNA.
Occorre precisare però, secondo Cubadda, che “questi effetti non sono una caratteristica di tutti i nanomateriali, quindi non è possibile generalizzare, occorre fare un’attenta valutazione caso per caso”. E tuttavia, aggiunge, “l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare sta producendo linee guida aggiornate rispetto a quelle, pionieristiche, già rilasciate nel 2011. Se si stabilirà che questi additivi possono costituire un rischio per la salute, il loro impiego sarà limitato o del tutto vietato. Per ora, comunque, il consumatore deve essere messo in grado di scegliere, attraverso la lettura trasparente delle etichette”.
Riferimenti: Food and Chemical Toxicology
Articolo prodotto in collaborazione con il Master SGP di Sapienza Università di Roma