Arriva l’8 marzo e il settimanale Nature dedica uno speciale alle donne nella scienza. Purtroppo l’obiettivo non è celebrare il talento delle loro menti brillanti ma quello di riportare all’attenzione un vecchio problema: la disparità di genere nel mondo della ricerca. I numeri parlano chiaro. Negli Stati Uniti, nonostante uomini e donne vincano approssimativamente lo stesso numero di dottorati (il che presuppone che abbiano la stessa preparazione accademica), il 79% dei professori universitari di scienze sono uomini. Inoltre, in questo campo, le donne guadagnano appena l’82% dei colleghi. La situazione non è certo migliore dalle nostre parti. Fatta eccezione per alcune isole felici come la Svezia, la Finlandia e la Norvegia, nel resto dei paesi europei le donne lavorano meno e faticano a ritagliarsi un ruolo ai vertici delle istituzioni di ricerca, delle accademie, delle università. E anche nel nostro paese la disparità di genere si fa sentire, stando ai dati del rapporto Donne e Scienza – L’Italia e il contesto internazionale curato dal centro di ricerca Observa – Science in Society. Tra i neolaureati in materie scientifiche, per esempio, le donne guadagnano in media il 10% in meno dei colleghi uomini; i professori ordinari di sesso femminile sono in numero sensibilmente minore rispetto a quelli di sesso maschile (nelle facoltà di ingegneria le donne che ricoprono questo ruolo sono appena l’8,4% del totale, dati 2009).
Che fare per cercare di porre rimedio a questa situazione? Spesso le risposte sono arrivate dai singoli paesi, come raccontano in uno degli approfondimenti dello speciale Brigitte Muhlenbruch, presidentessa della European Platform of Women Scientist, e Maren Jochimsen, direttrice dell’Essen College of Gender Studies della tedesca Università di Duisburg-Essen. Proprio in Germania, per esempio, la German Research Foundation (la più importante organizzazione che si occupa di finanziare la ricerca) ha messo nero su bianco una serie di raccomandazioni che le istituzioni sono tenute a seguire se vogliono avere maggiori possibilità di ottenere finanziamenti. In soldoni, si tratta di linee guida che prevedono l’ integrazione e l’ applicazione di standard decisionali in enti pubblici e privati: istruzioni e procedure che contrastino i datati stereotipi sulle differenze di genere, favoriscano la pianificazione del tempo e aiutino le donne a combinare famiglia e carriera. Cose che, concretamente, vogliono dire orari di lavoro più flessibili, asili nido sul posto di lavoro, stipendi adeguati al carico di lavoro e alle esigenze familiari. Le linee guida, inoltre, trattano anche il tema della trasparenza: le istituzioni sono coinvolte a rendere pubblici i dati sulla rappresentanza femminile al loro interno.
A livello comunitario, lo European Research Council, l’agenzia dell’Unione europea che dal 2007 si occupa del supporto della ricerca, ha cercato di tenere alta l’attenzione su questo tema attuando iniziative nel rispetto della parità di genere. Per esempio, ha aumentato il numero di progetti finanziabili proposti da ricercatori con figli, il che ha portato più donne a partecipare ai bandi, visto che la maternità sembra tutt’oggi uno degli ostacoli principali alla carriera femminile. Ma al di là di quello che accade nelle accademie e negli enti di ricerca, secondo le autrici qualcosa dovrebbe smuoversi anche nell’ editoria medica-scientifica. Le riviste di settore dovrebbero invitare più ricercatrici donne a scrivere editoriali, commenti e revisioni. Insomma, gli sforzi per raggiungere l’uguaglianza devono essere molteplici e diversificati.
In un altro intervento, la neuroscienziata Jennifer Raymond della Stanford University School of Medicine, in Usa, fa un appello direttamente alle colleghe donne invitandole a prendere coscienza del proprio valore contrattando sui salari e non cedendo alla tentazione di vedersi, prima che scienziate, madri e mogli. Secondo la Raymond, bisogna chiedere “trasparenza nei salari, nelle assunzioni, nella rappresentanza e nelle decisioni editoriali”. Per iniziare, potrebbe essere utile valutare l’assegnazione di posti di lavoro, finanziamenti e premi “alla cieca”, cioè non conoscendo l’identità di colui o colei che ne fa richiesta. Si tratterebbe di un primo strumento con cui affrontare il problema, fermo restando che il fine è quello di creare una coscienza civile che non abbia bisogno di simili stratagemmi per affermare la parità di diritti tra uomini e donne, nel mondo della scienza come in ogni ambito della società.
Via: Wired.it
Credits immagine: UGA College of Ag/Flickr
isole felici come la Svezia, la Finlandia e la Norvegia,:
siamo sicuri ?
il tasso di violenza è al suo massimo in paesi come Danimarca (52% di donne che hanno subito abusi), Finlandia (47%), Svezia (46%), Olanda (45%), paesi cioè nei quali l’istituto della famiglia è in crisi da parecchio tempo. Paesi dove la famiglia ancora è relativamente solida hanno percentuali molto più basse: l’Italia ha il 27%.