Immaginate un mondo dove il vostro microprocessore da qualche Gigahertz è costituito di polimeri artificiali o naturali, per esempio di Dna. Non è uno scenario da film di fantascienza. Dall’Università del Wisconsin – Madison, arriva uno studio, pubblicato da Nature il 13 gennaio scorso, nel quale il Lloyd Smith e i suoi colleghi descrivono come i loro microprocessori costruiti con di molecole di Dna vengono utilizzati al posto dei tradizionali microchip di silicio. Mentre nei circuiti classici i bit, le unità di informazione necessarie a ogni computer per effettuare qualsiasi operazione, sono trasportati dal flusso di elettroni, in questi avveniristici chip al Dna i bit sono invece rappresentati dalle diverse conformazioni che la molecola può assumere. Ed è proprio l’enorme versatilità conformazionale tipica dei polimeri naturali e non, a promettere potenze di calcolo fino a oggi inimmaginabili.
Il cosiddetto Dna computing, nome con cui viene indicata questa tecnologia nascente, non è una curiosità da mondo accademico. Per l’industria del microchip è una necessità. Perché fin da quando vide l’alba negli anni ‘50, il mondo del silicio segue il postulato formulato nel 1965 da Gordon Moore, uno dei padri fondatori della Intel. Egli osservò che il numero dei transistor contenuti in un chip raddoppia ogni 18 mesi. Tradotto in linguaggio commerciale: ogni 18 mesi raddoppia la potenza di calcolo dei microprocessori. Così è stato ed è tuttora, e la legge di Moore (http://www.intel.com/intel/museum/25anniv/hof/moore.htm) continua implacabilmente a guidare il mercato informatico. Il continuo botta e risposta tra Intel e Amd, i due leader del mercato, lo dimostra. Ma il prezzo da pagare sta diventando insostenibile, sia dal punto di vista economico che fisico.
Raddoppiare la velocità dei chip significa diminuire le dimensioni dei loro componenti. La scommessa è far entrare in uno spazio sempre più piccolo il maggior numero possibile di transistor, cercando di renderli sempre più piccoli. Ma la ricerca e lo sviluppo nel campo della nanotecnologia, cioè la tecnica che permette di manipolare oggetti tanto microscopici, costano una fortuna. La spesa per costruire gli impianti che producono i chip di silicio dell’ultima generazione raddoppia ogni tre anni. E i margini di guadagno per le industrie si assottigliano sempre di più.
Ma c’è un altro motivo di fondo per cui diventerà impossibile proseguire lungo la strada predetta da Moore. Seguendo questo ritmo, intorno al 2014 si raggiungerà il limite fisico della miniaturizzazione dei transistor così come furono concepiti negli anni ‘50. Insomma, più piccoli di tanto i chip di silicio non possono proprio diventare. D’altra parte i microprocessori sono destinati a permeare sempre di più gli oggetti di uso quotidiano: computer, telefonini, auto, giocattoli, elettrodomestici e la lista potrebbe proseguire parecchio. Non solo. Le nuove tecnologie dell’informazione richiederanno potenze di elaborazione sempre più elevate per mantenere il loro tasso di crescita. La negazione del postulato di Moore potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Si rischia di sbattere contro un muro.
Per porre rimedio si stanno sviluppando tecnologie al silicio che permettono di costruire i chip su tre dimensioni. Mentre i vecchi transistor hanno un unico interruttore che controlla il flusso di bit, i nuovi processori 3D ne hanno due. Questo design consente di sviluppare il chip non solo in orizzontale ma anche in verticale. Il fatto è che più che un’innovazione, i chip tridimensionali sembrano essere l’ultimo respiro di una tecnologia che non ha quasi più nulla da dare.
Dunque, bisogna provare vie radicalmente alternative. E il Dna non è l’unico candidato a sostituire il silicio. Un’ulteriore alternativa in corso di sperimentazione è offerta da processori basati sul quantum computing. Questi sistemi obbediscono alle leggi della meccanica quantistica e i bit sono trasportati dagli stati quantici delle particelle elementari. Anche in questo caso, oltre al vantaggio di una miniaturizzazione spinta, si avrebbero enormi capacità di calcolo rispetto ai chip tradizionali. Se saranno molecole di Dna o gli stati quantici delle particelle elementari a sostituire gli sciami di elettroni che fluiscono oggi nei nostri calcolatori è ancora presto per dirlo. Di sicuro sullo sfondo di questa ricerca di innovazione strategica c’è una prospettiva preoccupante: la completa assenza di un contributo intellettuale dell’Europa, che preferisce investire i propri soldi in ricerca e sviluppo statunitense, come dichiara il Dipartimento del Commercio degli Usa. E il vecchio continente continua imperterrito a subire innovazioni tecnologiche con costi economici carissimi.