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Fuga dall’ateneo

di
Luisa De Paula

Nicola Gardini
I Baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana
Feltrinelli 2009, pp. 203, euro 13,00

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Dopo la laurea in Lettere classiche e un anno di lavoro a Milano, Nicola si trasferisce a New York per un programma di dottorato in Letteratura comparata. Ha appena 24 anni e la vita gli sorride. In America impara che con la passione nel cuore e un progetto in testa perfino l’obiettivo più ambizioso si trasforma in un’impresa possibile e realizzabile. Nelle università americane nessuno ti dice come devi marciare, e nessuno ti mette i bastoni tra le ruote se vuoi farlo a tutta forza. Niente t’ impedisce di assecondare l’entusiasmo e il vigore di una giovinezza promettente, di dividerti tra studio, insegnamento, e lavoro extra-accademico per consolidare a 360 gradi il tuo percorso. Così Nicola si abitua a confidare nei propri sogni e nel fatto che per realizzarli basta darsi da fare. Cinque anni dopo, la fine del dottorato e il rientro in patria sembrano invertire la rotta delle sue convinzioni e di un meritato successo professionale. Questa la storia raccontata nelle pagine de I Baroni, libro autobiografico di  Nicola Gardini, oggi professore di Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford.

Un libro vivo, fremente, appassionatamente lucido, che pur attenendosi ai fatti non si accontenta di raccontarli ma li scava dentro per rifletterne la multiforme complessità. I Baroni, protagonisti di un sistema allo sfacelo, vengono ritratti seguendo l’evoluzione dei sentimenti di chi a poco a poco impara a vedere in loro le marionette del terrore e di una solitudine senza scampo: dapprima con odio e impetuosità, poi con rabbia sdegnosa, e infine con un distacco senza indulgenza. La requisitoria nei confronti è dura, senza risparmio di colpi, e completamente affidata alle armi della cronaca.  Evitando sia il distacco sia l’eccesso d’immedesimazione, Gardini trasforma un vissuto personalissimo in esempio paradigmatico, in un affresco narrativo che forse non vale solo per l’università italiana ma anche per l’italianità in generale, per il modo in cui in Italia si muovono certe carriere. I baroni forse non sono l’ultima tappa del suo disincanto. Nel loro esasperato narcisismo, infatti, questi uomini di potere lasciano trapelare una totale fatuità, un vuoto che da le vertigini. Dietro di loro c’è il nulla; davanti, un ingranaggio perverso che si rifugia nell’anonimato di tutti noi. L’università è parte di questo ingranaggio, e certo una non secondaria.

Il contrasto tra gli ambienti accademici di casa nostra e quelli d’Oltreoceano emerge con una vividezza che non necessita di spiegazioni. Le differenze emergono sotto forma di episodi e, ancor di più, come atmosfere, sottofondi imperscrutabili cadenzati dal talento narrativo dell’autore. Sulla scena americana lo slancio del giovane ricercatore fa tutt’uno con la pronta disponibilità dei superiori, con l’efficienza dei segretari e con lo spirito d’iniziativa degli allievi, con la loro prontezza a mettersi in gioco personalmente. A Palermo, invece, le intimidazioni di un barone nei riguardi del collega appena nominato si fondono in un’unica atmosfera con la sciatteria del dipartimento, la riottosa indisponenza del personale e la passività degli studenti, ma anche con le zuffe, le scenate di gelosia e i riti di riconciliazione cui il neo-professore capita di assistere dalle finestre di malconci alloggi siciliani.  

Forse parlare di “aria mafiosa” è un’esagerazione, e senz’altro travalica gli intenti dell’autore, però a fine lettura un po’ l’impressione resta, facendosi strada tra echi sciasciani e lo stimolo a confrontare le avventure di Nicola con certe esperienze personali. Aria da Baroni, aria da feudalismo. L’apparato di devozione che istituzionalmente struttura l’università italiana ricorda la religione, con il suo sistema di colpe e assoluzioni. Per essere ammessi negli ambienti accademici bisogna infatti appropriarsi di certe formule e riti d’iniziazione. Nel racconto di Nicola preghiere e concessioni vengono presentati come il modo naturale per perpetuare una storia di fedeltà che affonda le radici in un passato senza tempo. Una storia che è però anche il presente, e che stringe tutto in una morsa tanto impalpabile quanto tenace, da cui sembra impossibile sottrarsi se non uscendo dal gioco.

Già, perché in Italia “l’università non è pensata come scuola, ma come tavolo da gioco”. Perciò neppure i cervelli più brillanti e le menti più preparate possono stare nella partita se non sacrificando alcune parti di sé. “Non si creda che io intenda passare per puro”, ci avverte l’autore. “Io sono un ambizioso. L’ambizione è una gara con se stessi, non con gli altri. L’ambizioso, dunque, non può ricorrere a mezzi come l’inganno o l’ipocrisia”. Se non può ricorrervi in prima persona, saranno però gli altri a farlo per lui. Altrove, rivolgendosi con il senno di poi ai primi gradini della sua carriera professionale, Nicola confessa a se stesso: “Avevo vinto perché rientravo nel piano di un Barone. Io ero una pedina di una scacchiera, una cosa che obbedisce alla mano del giocatore, mi trovavo là per un caso del gioco”.

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