Alzheimer’s in a Dish, ovvero l’Alzheimer in un piatto (nel caso una capsula petri da laboratorio): un’evoluzione nello studio della malattia e nella ricerca di nuovi farmaci capaci di arrestarla. A creare il nuovo modello per la patologia neurodegenerativa, con cellule del cervello umano che riproducono le caratteristiche strutture tipiche dell’Alzheimer, è stato un team di ricercatori guidati da Rudolph E. Tanzi del Massachusetts General Hospital di Boston.
Cuore del modello, come racconta il New York Times, è una matrice di gel nel quale sono state fatte crescere i neuroni, con i geni mutati correlati all’insorgenza della malattia (quello della presenilina 1 e della proteina precorritrice della beta-amiloide, App). Queste, crescendo, formano un modello tridimensionale nel quale è possibile riconoscere i segni distintivi dell’Alzheimer, come le placche amiloidi e gli ammassi neurofibrillari.
Questo di per sé è già un risultato. Infatti, come hanno osservato i ricercatori, la formazione delle placche amiloidi di per sé è sufficiente a scatenare la formazione degli ammassi neurofibrillari e la morte cellulare tipica della malattia, supportando così l‘ipotesi amiloide (ovvero che siano le placche a dare origine alla neurodegenerazione e all’infiammazione che caratterizza l’Alzheimer). Finora osservare sia la formazione delle placche che degli ammassi neurofibrillari in vivo o in vitro era stato molto difficile, precisano i ricercatori.
Sebbene il modello, presentato sulle pagine di Nature, manchi della complessità di un cervello reale (per esempio, mancano le cellule del sistema immunitario) rappresenta un punto di svolta nella ricerca di nuovi farmaci. Un cambio radicale rispetto al solo studio della malattia in vivo, nei modelli animali.
Ora per esempio, il team di Tanzi ha in mente di utilizzare il proprio modello per testare una quantità enorme di composti potenzialmente attivi contro la malattia. Gli scienziati cominceranno a farlo passando al setaccio le capacità di 1200 composti già sul mercato ed altri 5000 che hanno appena concluso la fase I dei trial clinici, inclusi quelli già testati e considerati sicuri per altre malattie. Una prova che col modello in vitro della malattia è possibile eseguire nel giro di mesi e non anni come necessario invece nel caso in cui si utilizzi il modello animale. E qualcosa è stato già fatto, come raccontano i ricercatori: bloccando un enzima che aggiunge gruppi fosfato allaproteina tau (questa, iperfosforilata, è presente nei malati di Alzheimer) si inibisce l’accumulo della proteina stessa e gli ammassi neurofibrillari.
L’idea però è anche quella di capire meglio la genesi e l’evoluzione della malattia, analizzando per esempio come la variante dell’apolipoproteina ApoE4, correlata a circa la metà di tutti i casi di Alzheimer, influenzi lo sviluppo della patologia.
Via: Wired.it
Credits immagine: Birth Into Being/Flickr CC