Perché sforzarsi di memorizzare il compleanno di un amico, quando c’è Facebook? Per le persone, Internet non è più solo un’ enorme enciclopedia, ma una vera e propria memoria esterna a cui si può accedere velocemente tutte le volte che lo si desidera. E a cui ormai ci si affida in maniera automatica, risparmiando spazio nella propria, di memoria. Non abbiamo più bisogno di ricordare: l’accesso a qualsiasi informazione è garantito dalla rassicurante stringa di uno dei tanti motori di ricerca. Significa che il Web ci sta rendendo più stupidi? Non proprio. Betsy Sparrow, del Dipartimento di Psicologia della Columbia University di New York, studia questo fenomeno psico-sociale – un aspetto di quello che è chiamato effetto Google – da circa quattro anni e crede che, piuttosto, stia semplicemente spostando la nostra attenzione: dal dato in sé, al luogo in cui poterlo recuperare.
Per comprendere esattamente come l’uso dilagante della rete stia cambiando il nostro modo di memorizzare, Sparrow ha ideato 4 diversi esperimenti e ha chiamato a raccolta un centinaio di studenti della sua università. I risultati sono ora pubblicati su Science.
Il primo esperimento mirava a stabilire se le persone pensano a Internet come prima fonte di informazioni. 106 studenti sono stati messi davanti a uno schermo (senza connessione alla Rete) in cui comparivano molte parole – tra cui alcune legate al Web, come Google e Yahoo! – ed è stato chiesto loro di dire ad alta voce il colore in cui erano scritte. Si trattava, in pratica, di un test di Stroop modificato, e teoria vuole che le persone siano più lente a pronunciare il colore di una parola che avevano già in mente o che coglie la loro attenzione (un effetto di interferenza, in pratica). Il risultato era scontato: di fronte alla parole legate alla rete, la mancanza di prontezza è stata più che evidente.
Nel secondo test la ricercatrice ha posto ai volontari 40 domande, e ha mostrato loro le risposte sul computer. A metà del gruppo, però, aveva detto precedentemente che il computer le avrebbe salvate, e all’altra metà aveva detto che non sarebbero state memorizzate. Poi ha sottoposto agli studenti i questionari con le medesime domande, senza permettere ai primi di rivedere le risposte. Chi ha eseguito meglio il compito? La seconda metà, quella che sapeva fin da subito di non avere altre possibilità di accedere alle informazioni.
Eccoci al terzo e al quarto esperimento. Sempre domande, la cui soluzione veniva fornita immediatamente da Sparrow. Questa volta, gli studenti potevano prenderne nota. Alcuni dovevano poi salvare le risposte in una tra 6 cartelle sul pc, altri dovevano cancellarle.
Di nuovo, i secondi sono stati i più bravi a ricordare le informazioni, ma i primi hanno mostrato una eccezionale memoria del luogo in cui i diversi file erano stati archiviati. Questo indicherebbe che la nostra strategia di apprendimento sta cambiando, come fa notare Roddy Roediger, psicologo della Washington University di St. Louis (Missouri): tendiamo a ricordare come ritrovare l’informazione piuttosto che l’informazione in sé.
In realtà, come riportano gli autori, l’affidarsi a una memoria collettiva non è una grande novità. La stessa idea di partenza di Sparrow si rifà a una teoria di circa 30 anni fa, elaborata da Daniel Wegner, secondo cui le persone si spartiscono la fatica del ricordare. Questa memoria transattiva la possiamo vedere in atto nelle interazioni fra amici, tra colleghi o tra marito e moglie, dove tipicamente il primo ricorda i luoghi e i parenti lontani, e la seconda le ricorrenze (per esempio il compleanno della nipote). Nell’era di Internet, questa memoria transattiva è semplicemente distribuita in tutto il mondo, e si trova online.
Riferimenti: DOI: 10.1126/science.1207745; DOI: 10.1126/science.333.6040.277
Via Wired.it