Le politiche declaratorie e le prese di posizione ufficiali sono spesso sottovalutate dai commentatori pragmatisti e dai politici realisti, ma questo giudizio rischia di dimostrarsi eccessivamente cinico. E anche un po’ in malafede. Per esempio, quando un paese considerato ostile tenta di minimizzare la minaccia presentata dalle proprie capacità militari (si pensi alle posizioni cinesi di no-first-use di armi nucleari) spesso si considerano tali dichiarazioni solo come propaganda. Quando invece le dichiarazioni suonano bellicose (come quelle dell’attuale presidente iraniano a proposito di Israele) gli stessi commentatori tendono a prenderle molto sul serio. E d’altra parte, a volte, è addirittura il peso delle proprie affermazioni a essere sopravvalutato: molti esponenti dell’establishment nucleare americano, per esempio, sostengono che gli Usa non dovrebbero mai dichiarare che l’unico scopo del proprio arsenale è servire da deterrente nei confronti di un eventuale attacco nucleare di altri paesi, perché tali dichiarazioni indebolirebbero proprio quella stessa funzione dissuasiva.
In realtà le dichiarazioni relative alle armi nucleari e al loro uso non sono affatto irrilevanti: la difficoltà, a causa delle differenze fra le percezioni e le opinioni politiche, sta piuttosto nel disaccordo su cosa, a chi e a che scopo si intende comunicare. A questo proposito, però, è lecito sperare che oggi, in un momento in cui le trattative per ulteriori riduzioni e per l’entrata in vigore del Comprehensive Nuclear Test-Ban Treaty sembrano bloccate, mentre alcuni Stati espandono i propri arsenali e altri sembrano volerli acquisire, alcune prese di posizione politiche possano offrire dei mezzi costruttivi almeno per rinforzare i tabù contro l’uso delle armi nucleari. Prendiamo per esempio il caso della poco conosciuta NPDI (Non-Proliferation and Disarmament Initiative): si tratta di un gruppo di dieci Stati – Australia, Canada, Cile, Germania, Giappone, Messico, Olanda, Polonia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti – tutti aderenti al NPT (Non-Proliferation Treaty), che dal 2010 hanno deciso di impegnarsi per incentivare i paesi a diminuire il ruolo e il significato delle armi nucleari nella loro dottrina militare e nelle loro politiche di sicurezza.
Nel 1995 i paesi membri del NPT si accordarono, non senza difficoltà, per una estensione indefinita del trattato, e in quella occasione gli Stati nucleari accettarono di impegnarsi per una riduzione globale, sistematica e progressiva delle armi nella prospettiva finale di una loro eliminazione totale. Nel 2000, inoltre, per fornire una misura più realistica del progresso realizzato, si decise di aggiungere l’obbligo di ridurre il ruolo delle armi nucleari nelle politiche di sicurezza per minimizzare il rischio che tali armi possano essere mai utilizzate, e per facilitare il processo verso la loro eliminazione. Questo obiettivo è stato poi anche confermato nella Conferenza di Revisione del NPT del 2010, ma è rimasto poco chiaro come possa essere definito il ruolo delle armi nucleari e quale è la sua importanza. I dieci paesi della NPDI hanno quindi preso l’iniziativa proprio per tentare di riempire questo vuoto e per ristabilire un po’ di fiducia nel compromesso sulla non-proliferazione che costituisce la base dell’attuale ordine nucleare globale. Essi hanno tenuto finora cinque incontri ministeriali (New York 22 settembre 2010; Berlino 30 aprile 2011; New York 21 settembre 2011; Istanbul 16 giugno 2012; New York 26 settembre 2012; le relative dichiarazioni finali possono essere trovate sul sito www.dfat.gov.au/security/npdi.html del governo australiano), e la loro importanza e distribuzione geografica consigliano di non sottovalutarne le osservazioni e le raccomandazioni. D’altra parte è evidente che questi paesi dovranno accortamente mescolare realismo e idealismo per ottenere qualche risultato (basti riflettere al fatto che sette di essi vivono sotto l’ombrello nucleare americano) evitando di cadere nell’inefficacia o nell’assoluta irrilevanza.
Tanto per cominciare, sarebbe interessante sollecitare alcuni chiarimenti sul ruolo assegnato agli arsenali nucleari tentando di determinarne una misura universalmente accettabile sulla base delle leggi internazionali. C’è infatti a questo proposito un largo ventaglio di posizioni e dichiarazioni ufficiali che potrebbero essere variamente giudicate. Ci sono Stati come il Pakistan che affermano di voler usare armi nucleari nel caso in cui un attacco convenzionale indiano sfondi le proprie difese, e conseguentemente assegnano un ruolo importante a tali armi.
Anche le generiche dichiarazioni del presidente Sarkozy, secondo il quale la strategia deterrente francese è diretta contro qualunque aggressione nei confronti degli interessi vitali del paese, inclusi la sua identità, la sua esistenza come Stato-nazione e il libero esercizio della propria sovranità, danno l’impressione che il deterrente nucleare occupi un posizione di rilievo nella graduatoria delle possibilità. D’altra parte, mentre nella Nuclear Posture Review 2001 l’amministrazione Usa ribadiva che l’arsenale nucleare americano serviva da deterrente per un vasto spettro di minacce (comprese armi di distruzione di massa e attacchi convenzionali su grande scala), nella revisione del 2010 la soglia è stata un po’ alzata e ora esso sembra diretto solo contro Stati che possiedono armi nucleari, o che tentano di dotarsene in violazione del NPT; mentre in prospettiva il rafforzamento delle capacità convenzionali accenna alla possibilità che in futuro il solo scopo delle armi nucleari americane sia funzionare da deterrente contro attacchi nucleari. Resta però aperta per ora, in circostanze estreme, la possibilità di un first-use. Inoltre, sempre nel 2010, la Federazione Russa prevedeva l’uso di armi nucleari anche contro aggressioni convenzionali che mettessero in pericolo la sua esistenza come Stato, mentre il Regno Unito sceglieva di mantenere una deliberata ambiguità su quando, come e a che livello avrebbe deciso di usarle. Cina e India seguono invece una ufficiale politica di no-first-use che gli avversari guardano con aperto scetticismo, anche se le attuali dimensioni dei rispettivi arsenali sembrano confermare tali dichiarazioni. Israele da parte sua non dichiara di detenere armi nucleari e non ne minaccia l’uso, ma afferma solo che non sarà il primo Stato a introdurre armi nucleari in Medio Oriente. La Nato, infine (ed è interessante notare che cinque Stati della NPDI sono anche membri NATO), nel vertice del 2012 a Chicago, preso atto delle dichiarazioni di Usa, Regno Unito e Francia, si è posta l’obiettivo di lavorare per un mondo senza armi nucleari, ma non è arrivata fino ad accettare esplicitamente la posizione Usa di tendere verso le condizioni per cui l’unico scopo del possesso di armi nucleari possa essere quello di scoraggiarne l’uso da parte di altri.
Per il momento la NPDI procede con molta cautela: per valutare se gli Stati stiano diminuendo il ruolo degli arsenali nucleari ha predisposto un questionario, nel quale tra l’altro si chiedono informazioni sul numero di armi e sulla quantità di materiale fissile detenuto. Difficilmente, per ragioni di segretezza, ci saranno risposte a queste domande da paesi come Cina, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord; ma la scheda chiede anche quali misure sono state prese o si intendono prendere per diminuire il ruolo delle armi nucleari, ed è difficile immaginare motivi legittimi per non rispondere. È altrettanto evidente però che manca un metro comune e accettato per valutare il ruolo che un paese assegna a tali armi, e un aperto dibattito su questo punto sarebbe utile.
Nel 1996 la ICJ (International Court of Justice) dell’Onu ha espresso a maggioranza l’opinione che la minaccia, o l’uso, di armi nucleari sarebbe contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati e in particolare alle leggi umanitarie; non è invece pervenuta a decidere se il ricorso alle armi nucleari sarebbe o meno fuori legge nelle circostanze estreme dell’autodifesa e della sopravvivenza di uno Stato. Forse questa potrebbe essere considerata oggi la formulazione più realistica del ruolo delle armi nucleari: se ne può immaginare l’uso solo nelle circostanze estreme dell’autodifesa se la sopravvivenza dello Stato è in pericolo. Ovviamente a molti anche questa possibilità lasciata dalla ICJ all’uso legale delle armi nucleari sembrerà eccessiva; eppure essa potrebbe essere già troppo costrittiva per almeno alcuni degli Stati nucleari. Forse nella NPDI anche alcuni dei sette Stati collocati sotto l’ombrello nucleare Usa potrebbero trovare inaccettabile la definizione della ICJ. Ma, come giustamente rileva G. Perkovich del Carnegie Endowment for International Peace, per non limitarsi a chiedere solo informazioni, e per non diventare del tutto irrilevante, la NPDI potrebbe richiedere agli Stati nucleari di adottare la definizione della ICJ: questo porrebbe già dei problemi a quelli che ancora prevedono un possibile first-use. Potrebbe anche chiedere se e come essi ritengono che le loro politiche nucleari possano adattarsi alla legge sui conflitti armati e alle leggi umanitarie; o se essi vedono una differenza fra first-use e rappresaglia, e quale essa è. Anche una riduzione del prestigio associato al possesso di armi nucleari sarebbe importante: è noto che solo Stati nucleari detengono seggi permanenti con diritto di veto nello UNSC (Consiglio di Sicurezza dell’Onu). La NPDI potrebbe quindi richiedere che in futuro solo gli Stati non nucleari possano accedere a seggi permanenti con diritto di veto nello UNSC. Naturalmente gli scettici potranno sempre porre in dubbio l’utilità di una campagna per la riduzione del ruolo delle armi nucleari, ma a questo la NPDI potrebbe rispondere che da un lato, per rinforzare l’attuale regime del NPT, gli Stati non nucleari devono avere l’impressione di una qualche maggiore equità nel sistema internazionale; e dall’altro che riducendo l’importanza delle armi nucleari, si acquisterebbe maggiore sicurezza per l’intero pianeta, Stati nucleari compresi.
Politica declaratoria? Confessiamo che affrontando queste discussioni si ha in fondo l’impressione di parlare di poca cosa, eppure, tornando un po’ verso casa nostra, ci si potrebbe allora domandare: come mai il governo italiano non fa parte della NPDI? È stata presa in considerazione la possibilità di aderirvi, o noi facciamo saldamente parte del gruppo degli scettici?
Questo articolo è stato pubblicato con il titolo “Il peso delle parole” sul numero di febbraio 2013 di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line.
Credits immagine: vaXzine / Flickr