Alexander Fleming lo aveva previsto già nel 1945: gli antibiotici se mal usati o usato troppo perdono di efficacia e i batteri trovano il modo per resistere al loro attacco. Addirittura nel discorso che tenne durante la cerimonia di consegna del Nobel, dato proprio per la scoperta del primo antibiotico, la penicillina, Fleming ipotizzò che un microorganismo modificato per resistere ai farmaci potesse un giorno diventare un temibile killer. “Lo scienziato aveva ragione, come dimostrano i dati relativi all’antibioticoresistenza: da una parte l’abilità dei germi ad adattarsi alle terapie e trovare vie d’uscita, dall’altra la flessione negli ultimi anni dello sforzo della ricerca per scoprire nuovi agenti, hanno fatto sì che oggi la situazione sia considerata critica”, sottolinea Claudio Viscoli, presidente della Società Italiana di Terapia Antinfettiva. Nel mondo, in Europa e in particolare in Italia. “Da noi, infatti, si registra una resistenza molto alta in particolari popolazioni di batteri, gli enterobatteri, in particolare l’Escherichia coli e la Klebsiella pneumoniae”, spiega Gian Maria Rossolini, direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia A.U.O. Careggi di Firenze. “Si calcola che circa il 10-25% delle infezioni causate da questi germi sia resistente alle terapie; il 33% se parliamo solo di K. Pneumoniae (con picchi anche molto più elevati in alcune zone specifiche d’Italia, come alcune provincie della Toscana)”.
La fonte principale di infezioni resistenti sono i ricoveri ospedalieri. È qui che bisogna puntare la lente d’ingrandimento per andare a capire cosa è possibile fare per migliorare la situazione. Tre i fattori su cui puntare: la riduzione della somministrazione indiscriminata di antibiotici, l’igiene e la numerosità dei letti per stanza. “In Italia, da anni, si prescrivono troppi antibiotici; il 45 -50% dei pazienti ricoverati in ospedale è sottoposto a terapie antibiotiche, mentre in altri paesi d’Europa non si supera il 30%. Il lavaggio delle mani, misura preventiva di carattere generale, è poco praticato soprattutto fra i medici, con un’adesione del 10% a fronte, per esempio, del 20-30% di Francia o Inghilterra; spesso i nosocomi sono inadeguati sul piano strutturale e solo il 10% degli ospedali può offrire camere con letti singoli. In Francia succede in oltre il 30% dei casi”, ha commentato Ercole Concia, direttore clinica Malattie Infettive e Tropicali, Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona.
Se non opportunamente trattate le infezioni causate da batteri multiresistenti portano a morte del paziente nel 40-50% dei casi. Già, ma se i farmaci a disposizione dei medici non funzionano più cosa si può fare? “In alcuni casi possiamo ritornare a usare molecole che avevamo forse troppo frettolosamente accantonato, come la fosfomicina o la colimicina, in nuovi dosaggi e combinazioni con altri agenti”, spiega Viscoli. Nel prossimo futuro, poi, dovrebbero arrivare sul mercato nuovi antibiotici. “In alcuni casi si tratta di terapie molto interessanti, come le nuove combinazioni di inibitori delle betalattamasi in grado di ripristinare l’attività degli antibiotici, soprattutto nei confronti dei Gram-negativi resistenti (P. aeruginosa, Klebsiella spp)”, commenta Matteo Bassetti, direttore clinica Malattie Infettive Azienda Ospedaliera Universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine. “Oltre a questi avremo nuove tetracicline (eravaciclina e omedacilina), nuovi aminoglucosidi (plazomicina), nuovi glicopeptidi (oritavancina). Ma prima che questi farmaci o alcuni di essi possano essere in commercio e a disposizione dei pazienti non potranno passare meno di 2-7 anni, nella migliore delle ipotesi”.
Credits immagine: Daniel Foster/Flickr CC