Una volta iniziata, la terapia antibiotica va portata a termine: è questa l’indicazione tradizionalmente fornita dai medici ai propri pazienti. Oggi, un articolo pubblicato su Bmj la mette fortemente in discussione, affermando addirittura che dovrebbe essere rovesciata. Infatti, sarebbe proprio il rispetto di un lungo ciclo terapia a favorire lo sviluppo di antibiotico-resistenza. Sarebbe meglio, azzardano addirittura i ricercatori, in alcuni casi, interrompere la terapia nel momento in cui il paziente si sente bene. Ma in questo modo potremmo essere certi dell’efficacia del trattamento antibiotico? Dobbiamo forse rivedere le attuali linee guida?
L’idea che lo sviluppo di una resistenza antibiotica sia più probabile in seguito a un lungo ciclo di terapia risale già al 1999 e al lavoro di un medico britannico, Harold Lambert, pubblicato in un articolo Lancet. Oggi alcuni esperti, provenienti da diverse istituzioni tra cui la University of Oxford e la Brighton and Sussex Medical School tornano ad affrontare il problema, affermando che i pazienti dovrebbero essere incoraggiati a portare avanti la terapia antibiotica fintanto che non si sentono meglio, poiché non ci sarebbero sufficienti evidenze sulla durata ottimale del ciclo terapeutico. In particolare, aggiungono, non ci sarebbero forti evidenze a testimonianza che i cicli terapeutici corrispondano ai cicli minimi di trattamento.
Non tutte le situazioni e tutti i batteri inoltre sono uguali. Se per alcune malattie, vanno avanti gli autori, come ad esempio la tubercolosi, c’è rischio di sviluppare antibiotico-resistenza se la terapia non viene assunta per un tempo sufficientemente lungo, per altre infezioni la situazione è del tutto diversa. Per esempio, per batteri come Escherichia coli e Staphylococcus aureus – che si comportano come opportunisti, causando infezioni solo dopo colonizzazione del flusso sanguigno o dell’intestino – sarebbe al contrario una prolungata esposizione agli antibiotici a portare allo sviluppo di una resistenza.
“È sicuramente vero che non è stato dimostrato che interrompendo prima la terapia si vada incontro ad antibiotico-resistenza, ma è altrettanto vero che non terminare una terapia aumenta il rischio che l’infezione non vada via, ripresentandosi in seguito” – afferma a Galileo Annalisa Pantosti, Dirigente di ricerca del Dipartimento di malattie infettive, parassitarie ed immunomediate dell’Istituto superiore di sanità, di fatto confermando le linee guida attuali sul corretto utilizzo degli antibiotici. Ma qualcosa potrebbe certamente cambiare: “Sono necessari degli studi clinici per sapere se, a seconda del tipo di infezione, possa andare bene anche un ciclo terapeutico più breve. Per esempio, per le infezioni urinarie, piuttosto frequenti nelle giovani donne, una sola dose di antibiotico va già bene, mentre nel caso di pazienti anziani, magari con complicanze dovute a patologie come il diabete, allora la terapia richiederebbe sicuramente più dosi. In ogni caso, il discorso più che su singoli individui si deve fare sulla popolazione generale, in cui sicuramente un utilizzo cospicuo e prolungato di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare resistenza, ragion per cui è fondamentale seguire sempre le prescrizioni mediche per quanto riguarda dosaggi e durata della terapia”
Infatti, sebbene il fenomeno dell’antibiotico-resistenza sia ormai una minaccia globale che, in quanto tale, deve essere affrontata partendo da un cambiamento culturale, Helen Stokes-Lampard del Royal College of General Practitioners, così come Sally Davies, il più alto consulente inglese in materia di questioni sanitarie – riferisce il Guardian – invitano alla cautela. Per gli esperti è necessario dare messaggi chiari alla popolazione in merito all’importanza di seguire le indicazioni mediche per il rispetto della terapia.
“È giusto come sempre quando si tratta di questioni scientifiche essere critici e fare riflessioni, ma non bisogna assolutamente suscitare confusione nella popolazione. Il consiglio è sicuramente quello di un uso prudente degli antibiotici, evitando di prenderli quando non necessari, come in caso di influenza e raffreddore – riprende Pantosti – Da un recente studio europeo in merito al cattivo uso degli antibiotici, ad esempio, è emerso che nel nostro paese il maggiore problema è l’auto-prescrizione. Può succedere, infatti, che il numero di capsule contenute all’interno di una confezione non coincida con quello necessario per la durata della terapia indicata dal medico, rimanendo così in più. Il rischio è che le persone possano, al comparire di alcuni sintomi, decidere autonomamente di prenderli ancora. Un no deciso va invece alla terapia fai da te” conclude la ricercatrice.
Riferimento: The British Medical Journal