Cosa unisce mele, nocciole, avocado, soia, asparagi, broccoli, sedano, cetriolo, pesche, kiwi, ciliege, lamponi, fragole, melone? Le api e la loro opera di impollinazione. Senza gli insetti queste e altre specie vegetali non potrebbero più riprodursi. Di più, anche l’allevamento del bestiame potrebbe risentire della scarsità delle api: l’abbondanza del foraggio di cui si nutrono le mucche, infatti, è strettamente dipendente dall’attività impollinatrice di questi insetti. “Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”, ha scritto Albert Einstein. E ora quella che sembrava un’ipotesi remota appare come una possibile realtà: in alcuni alveari è scomparso fino al 90 per cento delle api. Perché? Molte sono le ipotesi, poche le certezze.
L’allarme colpisce l’Europa, con casi denunciati in Italia, Grecia, Polonia, Portogallo e Spagna, gli Stati Uniti, dove gli apicoltori di 20 Stati hanno già fatto sentire la loro voce, il Canada e il Brasile. Il fenomeno, denunciato per la prima volta a novembre dello scorso, ha quindi ormai assunto una dimensione planetaria ed è stato denominato “Collapse Colony Disorder” (Cdd). Al vaglio degli esperti ci sono diverse ipotesi per spiegare la moria: l’opera di un microrganismo, gli effetti dell’uso indiscriminato dei pesticidi, la pervasività delle colture geneticamente modificate e l’interferenza delle onde elettromagnetiche dei telefoni cellulari.
Sul primo fronte Baldwyn Torto dell’African Insect Science for Food and Health di Nairobi pubblica, insieme ai ricercatori del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, uno studio su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) in cui suggerisce un legame fra l’introduzione di microrganismi invasivi nativi dell’Africa, come lo scarabeo dell’alveare (Aethina tumida), negli Stati Uniti e in Europa e il collasso degli alveari. “Gli scarabei sono come degli spazzini che ripuliscono gli alveari dal polline in eccesso. Per digerirlo usano un fungo i cui residui fermentano nell’alveare cambiandone la composizione chimica”, spiega Torto. “Dal momento che le api sono molto sensibili si accorgono di questa variazione e abbandonano la loro dimora”. In Africa questo non succede perché gli insetti accumulano una quantità minore di polline negli alveari, che quindi non rappresentano un “piatto” così prelibato per gli scarabei.
Dall’Africa arriva anche una delle possibili soluzioni al problema: il trattamento degli alveari con olio di limone e menta. Un rimedio usato nel continente nero da più di 60mila anni che, secondo James Amrine entomologo del WVU Davis College of Agricolture, Forestry and Consumer Sciences statunitense, aiuta le api a resistere dall’attacco dei patogeni, forse aumentando la loro risposta immunitaria. Amrine presenta i risultati di questo trattamento sull’International Journal of Acarology di giugno.
In Italia, invece, l’indice è puntato soprattutto sui pesticidi. Il rapporto annuale “Pesticidi nel piatto” di Legambiente, presentato lo scorso 22 maggio, dedica un capitolo anche alla scomparsa delle api. In particolare, secondo gli ambientalisti, la colpa sarebbe da addebitare alla diffusione di alcuni fitofarmaci in cui sono contenute molecole neonicotinoidi, che sono simili alla nicotina e agiscono sul sistema nervoso centrale degli insetti. “Sin dalla loro introduzione in agricoltura in Francia, nel 1991, queste sostanze hanno provocato effetti letali sulle api, determinando dei pronunciamenti giudiziari che, in osservanza al principio di precauzione, hanno vietato l’uso di questi pesticidi su molte colture”, denuncia Legambiente. Per questo l’associazione, insieme all’Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani, ha rivolto un appello ai ministri della Salute Livia Turco e delle Politiche Agricole Paolo De Castro affinché s’impegnino ad acquisire con celerità tutti gli elementi che stanno alla base delle denunce degli apicoltori italiani.
C’è poi chi è preoccupato degli effetti di contaminazioni di organismi geneticamente modificati: una recente ricerca del Department of Biological Sciences, Simon Fraser University della British Columbia in Canada pubblicata dall’Ecological Society of America ha evidenziato come nei campi coltivati con colza geneticamente modificata si sia verificata una forte riduzione del numero di api presenti e un grave deficit nell’attività di impollinazione rispetto ai campi con colture convenzionali.
Secondo Coldiretti in Italia è a rischio una popolazione stimata in circa 50 miliardi di api in oltre 1 milione di alveari che offrono “gratuitamente” un valore del servizio di impollinazione alle piante agricole lungo tutto il paese stimato pari a 2,5 miliardi di euro all’anno.