Repellenti sia all’acqua che ai grassi, i Pfas, composti chimici utilizzati ad esempio come rivestimenti dei contenitori per il cibo, possono essere tossici se ingeriti in una certa quantità e per questo da tempo sotto la lente degli scienziati. Ora sono di nuovo sotto i riflettori degli esperti grazie al fatto che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ne ha valutato i rischi e ha indicato un nuovo livello di sicurezza dell’esposizione umana a queste sostanze, espresso con un particolare parametro, attraverso l’alimentazione. I Pfas (o sostanze perfluoroalchiliche), infatti, possono essere presenti anche in alcuni alimenti e dunque essere assorbiti dal nostro organismo, nel quale si accumulano. Le informazioni sono contenute in un articolo con il parere scientifico dell’Efsa sono pubblicati sulla pagina dell’ente.
Cosa sono i Pfas
I Pfas sono composti da catene di atomi di carbonio legati al fluoro e ad altri composti chimici (o meglio gruppi funzionali). Sono molto resistenti ai grassi e all’acqua, motivo per cui sono molto persistenti nell’ambiente e sono utilizzati come rivestimenti per tessuti, tappetini, contenitori per alimenti ed altri oggetti di uso comune. Gli scienziati studiano gli effetti dei pfas sulla salute degli organismi viventi, dato che oggi sappiamo che un’esposizione di un certo livello a questi composti può alterare l’equilibrio ormonale fondamentale per la crescita e lo sviluppo del feto e del bambino. Le persone che sono state più esposte prima della nascita, infatti, hanno un maggior rischio di patologie riproduttive, fra cui problemi di fertilità, abortività ed endometriosi.
Acqua, il caso del Veneto
Queste sostanze sono ubiquitarie anche se ognuno di noi viene a contatto con quantità molto piccole. I Pfas sono diventati famosi – e sono stati studiati – a partire da un noto caso sanitario, quello della contaminazione di acque sotterranee, superficiali e potabili scoperta nel 2013 dal Cnr in alcuni territori del Veneto. Per questi motivi il 29 gennaio 2014 il ministero della Salute ha fissato un limite massimo della presenza di questi composti nell’acqua potabile (per tutti i Pfas inferiori a un milionesimo di grammo per litro), ma la maggior parte dei paesi europei non ha ancora fissato dei limiti.
Un recente studio, ad esempio, ha mostrato che una maggiore esposizione ai Pfas (studiata in un gruppo di ragazzi dai 18 ai 20 anni esposti in Veneto a questi composti) potrebbe aumentare la probabilità di problemi ormonali e potrebbe essere un fattore di rischio per l’infertilità (anche se ancora il risultato è da approfondire). Secondo un altro studio dell’università di Padova, poi, sempre in Veneto i Pfas potrebbero aver agito negativamente anche sulla salute riproduttiva femminile, aumentando il rischio di poliabortività.
Anche i cibi possono contenere Pfas
Anche gli alimenti possono contenere i Pfas, anche se sempre in piccole quantità. Ma perché? L’idea è che anche se in quantità molto ridotte i cibi possano venire contaminati dai terreni o da acque contaminate usate per coltivarli; dai Pfas presenti nell’organismo di animali e accumulatisi tramite mangimi e acqua, ma anche dagli imballaggi alimentari o da strumenti e attrezzature contenenti Pfas usati per le lavorazioni alimentari.
Stabilire dei livelli di sicurezza
Anche se la loro presenza è generalmente molto ridotta e non ci sono casi di contaminazione alimentare noti, la prudenza non è mai troppa. Di qui la necessità dell’Autorità Efsa europea di stimare i rischi e stabilire delle soglie. I quattro Pfas su cui si è incentrata la valutazione dell’Efsa sono l’acido perfluoroottanoico (Pfoa), l’acido perfluoroottansolfonico (Pfos), l’acido perfluorononanoico (Pfna) e l’acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS). I più a rischio sono lattanti e bambini. I ricercatori hanno individuato la concentrazione ottimale – la più bassa – dei 4 Pfas nel sangue dei bambini, pari a 17.5 nanogrammi (ng – milionesimi di millesimi di grammo per millilitro e hanno ricavato che questo valore si ha con un’esposizione materna ai Pfas pari a 0.63 nanogrammi (ng) per kg di peso corporeo al giorno – questa misura indica che la madre è esposta ogni giorno a 0,63 nanogrammi per ogni kg del suo peso. La misura è giornaliera dato che si tiene conto che i Pfas si accumulano nell’organismo e non vengono eliminati efficacemente. Gli esperti hanno poi traslato questo limite in un valore settimanale con un risultato del limite pari a (0,63×7)= 4,4 nanogrammi per kg di peso corporeo a settimana.
Pfas, al massimo 4,4 nanogrammi per kg corporeo a settimana
Ma cosa vuol dire 4,4 nanogrammi di Pfas per kg a settimana? “L’Efsa ha stabilito una dose settimanale tollerabile di Gruppo (Dst) di 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana per l’acido perfluoroottanoico (Pfoa), l’acido perfluoroottansolfonico (Pfos), l’acido perfluorononanoico (Pfna) e l’acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS)”, spiegano gli esperti a Wired.it. “La dose Dst è la quantità massima di una sostanza (espressa per kg di peso corporeo) a cui si può essere esposti settimanalmente per tutta la vita senza avere effetti avversi per la salute”. E proseguono: “i limiti di contaminazione negli alimenti e nell’acqua si calcolano sulla base della soglia fissata oggi considerando un consumo medio di acqua e alimenti e con un contenuto massimo dei Pfas che non portino ad eccedere la dose limite indicata”.
Insomma, il nuovo livello indicato oggi è importante anche per studiare l’eventuale contaminazione degli alimenti e controllarne la sicurezza.
Via Wired.it
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