Basta con il pregiudizio di genere

Nonostante il problema del bias di genere nella ricerca biomedica sia stato sollevato oltre venti anni fa, il sesso femminile è ancora molto poco rappresentato, sia negli studi di base sia nei trial clinici sui farmaci. Le riviste scientifiche, le fondazioni, le agenzie che finanziano le ricerche e gli scienziati devono richiedere che la percentuale di donne su cui viene studiato un farmaco sia quanto meno proporzionata alla popolazione femminile cui è diretto. E devono anche esigere che si facciano analisi sesso-spefiche dei risultati. A richiederlo sono Alison Kim, Candace Tingen e Teresa Woodruff della Northwestern University di Chicago (Usa) con un articolo su Nature. Si tratta soltanto di una delle tre “Opinion” con cui la rivista britannica torna su questo argomento.

È ormai noto che le donne hanno un decorso delle malattie e rispondono ai trattamenti in maniera molto diversa rispetto agli uomini. Se, in alcuni settori della farmacologia, è stato fatto qualche passo in avanti, i numeri mostrano che siamo ben lontani dal raggiungere la parità dei sessi nella ricerca biomedica. Qualche esempio? Come ricordano le tre ricercatrici, un’analisi sugli studi pubblicati nel 2004 in nove importanti riviste specialistiche ha rivelato che solo il 37 per cento dei partecipanti alle sperimentazioni era di sesso femminile. E due studi pubblicati nel 2000 e nel 2008 mostrano che le donne non sono ancora incluse in maniera sistematica nei trial sulle patologie cardiovascolari, almeno non in misura da riflettere la prevalenza delle malattie nella popolazione.

In un’altra opinion, Irving Zucker and Annaliese Beery dell’Università della California (di Berkeley e San Francisco, rispettivamente) chiedono che le stesse regole invocate da Kim, Tingen e Woodruff siano applicate nelle prime fasi degli studi, quelle in cui si impiegano gli animali. Per esempio – riportano gli autori – le donne sono più colpite da ictus rispetto agli uomini, ma solo il 38 per cento degli studi sull’evento ischemico è stato condotto su animali femmine (il pregiudizio contro l’uso delle femmine nei test sugli animali è in parte dovuto alle preoccupazioni circa la loro maggiore “variabilità fisiologica” data dai cicli ormonali). Il bias, in realtà, esiste anche per le sperimentazioni sulle cellule in coltura, che provengono quasi sempre da cavie di sesso maschile.

Un terzo articolo, infine, afferma l’inaccettabilità etica dell’escludere sistematicamente le donne gravide dai trial, per le quali oggi si estrapolano i dati sui dosaggi dalle sperimentazioni condotte sugli uomini o, nel migliore dei casi, su donne non incinte. Autrice è Françoise Baylis della Dalhousie University (Canada). “È comprensibile che ci sia una certa preoccupazione per il feto – sostiene la ricercatrice –, ed è ovvio che debbano essere prese misure di sicurezza stringenti. Ma a me sembra più razionale tenere queste donne sotto controllo in una sperimentazione, piuttosto che permettere loro di assumere farmaci prescritti fuori indicazione”. (m.r.)

Riferimenti: Nature|Vol 465|10 June 2010;
doi:10.1038/465688a;
doi:10.1038/465690a;
doi:10.1038/465689a

Credit immagine: Nature

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