La convinzione che il trapianto costituisse una risorsa a cui ricorrere soltanto per pazienti per i quali erano state esaurite tutte le altre possibilità terapeutiche e che si trovavano nel disperato quesito di scelta tra la morte e una chance offerta da un trapianto d’organo, era del resto giustificata dai risultati. Infatti, dal primo trapianto di fegato eseguito il 1 Marzo 1963, che si concluse con la morte al tavolo operatorio, per emorragia, del paziente (un bambino di 3 anni affetto da atresia delle vie biliari), alla prima sopravvivenza, passarono oltre 4 anni. Il 23 luglio 1967, un bambino venne sottoposto – sempre a Denver da Thomas Starzl – al trapianto del fegato per un tumore e visse per oltre un anno. Tuttavia, per quanto riguarda il trapianto di fegato si dovettero attendere gli anni ‘70 per ottenere successi più significativi. Il 22 gennaio 1970 venne trapiantata, sempre a Denver, una bambina affetta da atresia delle vie biliari e contemporaneamente portatrice di un tumore del fegato (un carcinoma epatocellulare del diametro di 3 cm). Quella bambina è oggi una donna di 33 anni, felicemente sposata.
Le curve di sopravvivenza degli anni ‘70 indicano, per il trapianto di fegato, una mortalità, a 5 anni di distanza dall’intervento, vicina all’80%. Le stesse curve ripetute alla fine dell’ultimo decennio (1998) indicano una sopravvivenza dei pazienti, a 5 anni dal trapianto di fegato, pari all’80% (almeno nei maggiori centri del mondo). In altre parole, si è arrivati a curare pazienti terminali, con un’aspettativa di vita di poche settimane o pochi mesi, restituendo loro una buona qualità di vita per un lungo numero di anni. Le statistiche in questo caso ci aiutano a comprendere la portata del cambiamento: nell’ultimo trentennio si è passati da una percentuale di insuccesso dell’80% a una percentuale di successo dell’80%. Oggi, in 8 casi su 10, pazienti senza più speranza di vita ritornano a vivere mentre negli anni ‘60 e ‘70, questo avveniva solo in 2 casi su 10. Per molti dei malati trapiantati, inoltre, non si è trattato di pura sopravvivenza ma di un ritorno ad una vita piena. I progressi scientifici della ricerca nel campo dei trapianti d’organo hanno portato grandi successi ma hanno anche determinato una straordinaria discrepanza tra il numero dei pazienti iscritti nelle liste d’attesa per un trapianto di organo e l’effettiva disponibilità di organi per il trapianto. Questa problematica, più evidente in alcune aree del mondo (come, per l’Europa, l’Italia centro-meridionale e la Grecia) costituisce in ogni area del pianeta il principale fattore che limita l’ulteriore espansione della chirurgia dei trapianti.
Alcuni numeri possono aiutare a comprendere il fenomeno: secondo i dati della UNOS (United Network for Organ Sharing, l’agenzia governativa che coordina la distribuzione degli organi e i dati dei pazienti in attesa di un trapianto su tutto il territorio americano) gli iscritti in lista d’attesa negli Stati Uniti erano 13.115 nel 1987 ma sono saliti a 44.025 nel 1996, con un aumento pari al 335%. I pazienti in attesa di un trapianto di fegato erano 449 nel 1987 e 5.715 nel 1996 (aumento del 1200%). A fronte di questo il numero dei donatori è aumentato in maniera solo marginale: da 4.085 nel 1988 a 4.891 nel 1994. La differenza tra domanda di una prestazione sanitaria e l’offerta della stessa è una caratteristica che la chirurgia dei trapianti non condivide con nessun altro settore della medicina ed è, ovviamente, motivata dal fatto che per l’esecuzione di un trapianto esiste l’esigenza di disporre di una risorsa dalle caratteristiche uniche come quella di un organo donato. D’altra parte il successo straordinario di questa attività medica era certamente inaspettato e non prevedibile per la maggior parte dei membri della comunità scientifica internazionale 40-50 anni fa. Negli anni ‘50, quando Thomas Starzl, uno dei pionieri della storia dei trapianti, decise, dopo una tesi di dottorato in neurofisiologia, di dedicarsi alla chirurgia dei trapianti, lo fece perché si riteneva che vi fossero 2 grandi sfide nel mondo scientifico: i tumori ed i trapianti d’organo. Qualcuno disse a Starzl, allora trentenne, che la soluzione per i tumori era ormai dietro l’angolo, ma che i trapianti non sarebbero mai stati realizzabili clinicamente.
Il lavoro compiuto in questo settore ha dimostrato che quell’affermazione non corrispondeva alla realtà; grazie alla motivazione e al senso di sfida di Thomas Starzl e all’impegno di tutti gli scienziati che negli anni si sono appassionati a questo settore della medicina, oggi il trapianto di un organo non è più considerato un fatto eccezionale, ma una terapia per un numero sempre più ampio di malattie. Come accennato nelle righe precedenti, il vero problema con cui si scontrano oggi i chirurghi e tutti gli specialisti che operano nel settore dei trapianti d’organo, non è più legato alla fattibilità dell’intervento, al suo successo dal punto di vista chirurgico o dal punto di vista della sopravvivenza per i pazienti e della loro qualità di vita. Il punto cruciale sul quale si sviluppa il dibattito all’interno della comunità scientifica, ma rivolto anche all’opinione pubblica in generale, è quello legato alla differenza tra l’aspettativa di cura e la sua reale applicazione. E` evidente che questa problematica necessita di soluzioni.
Alla ricerca di una soluzione
I pazienti attualmente in attesa per un trapianto d’organo negli Stati Uniti sono più di 70.000, secondo i dati del registro informatico della UNOS. Grazie all’esistenza del registro informatico e di questa organizzazione, attiva dal 1984, è possibile accedere a una serie di informazioni che fotografano con chiarezza la dimensione dei problemi per i quali la chirurgia e la medicina dei trapianti sono alla ricerca di una soluzione. Si sa, per esempio, che ogni giorno 10 malati iscritti nelle liste di attesa per un trapianto muoiono perché un organo compatibile non viene reperito in tempo (anche in Italia, nel prossimo futuro, grazie alla nuova legge approvata dal Parlamento Italiano il 1 aprile 1999, saranno raccolti, e resi disponibili, dati di questo tipo).
Il problema della scarsità degli organi, insieme alle complicanze infettive post-trapianto, è una delle aree principali che necessitano di soluzioni da individuare con urgenza. Negli ultimi 40 anni sono state individuate diverse possibili soluzioni quali il trapianto da donatore vivente, l’utilizzo di organi artificiali, lo xenotrapianto (trapianto tra specie diverse) sia mediante l’utilizzo di primati che attraverso la manipolazione genetica di altre specie (suini transgenici), e infine la realizzazione di organi biologici in laboratorio. Ognuna di queste soluzioni pone importanti problemi tecnici ed etici. Mentre per alcuni organi la soluzione dell’organo artificiale è probabilmente quella più idonea (per esempio, nel caso del cuore, che svolge essenzialmente funzioni di pompa), per altri organi, come il fegato, questo obiettivo sembra oggi ancora lontano. Per quanto attiene ai trapianti da donatore vivente, è proprio da qui che sono stati mossi i primissimi passi della chirurgia dei trapianti, come è riportato nelle note storiche di questo articolo. Oggi quasi un terzo dei 12.000 trapianti di rene eseguiti annualmente negli Stati Unti sono da donatore vivente: dal 1989 sono stati realizzati più di 1000 trapianti di fegato utilizzando una porzione di tale organo da un donatore vivente. Vi sono centri trapianto, come quello della University Medical College of Virginia Hospital a Richmond, che hanno un programma attivo per il trapianto di fegato da donatore vivente e dove questo intervento, estremamente sofisticato, viene eseguito con regolarità. Anche in Italia, nel dicembre del 1999, il Parlamento ha approvato questo tipo di chirurgia e certamente esistono le competenze perché questi interventi inizino al più presto.
Altre possibili strade che la ricerca scientifica persegue sono quelle dello xenotrapianto (al quale dedicheremo spazio in questo articolo), la realizzazione di organi artificiali e la realizzazione in laboratorio di organi biologici. Quest’ultima, ovviamente, rappresenta il sogno più affascinante perché, se si potesse realizzare in laboratorio un intero organo (per esempio un fegato a partire dalle strutture cellulari che lo compongono), il problema dei trapianti, in particolare il problema della disponibilità degli organi per i trapianti, sarebbe virtualmente risolto. Tuttavia, almeno sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili oggi, mentre per alcuni organi come il cuore sono percorribili più strade, per altri come il fegato, l’unica strada che appare realistica è quella dello xenotrapianto, pur con tutte le problematiche etiche che esso pone.
Il futuro dello xenotrapianto
La sperimentazione nell’ambito dello xenotrapianto ha subito negli ultimi 30-40 anni fasi alterne e a momenti di grande entusiasmo sono seguiti periodi privi della stessa vitalità scientifica. Negli ultimi sette anni (1993-2000) i motivi di tale ristagno o ritardo sono da ascrivere a diverse cause e motivazioni: alcuni dei trials clinici promessi tardano a verificarsi e molti fra i ricercatori che avevano dimostrato maggiore motivazione si sono oggi arroccati su posizioni più caute. La motivazione principale di questi ritardi rimane quella del rigetto e in questa area, un ruolo fondamentale è giocato dalle grandi società farmaceutiche che hanno preferito investire in altri campi. Rimane emblematico il caso di uno dei più noti scienziati attivi in questo settore, Fritz Bach, il quale, una volta vistosi tagliare i fondi precedentemente dedicati a studi e sperimentazioni sullo xenotrapianto, è diventato dapprima un cauto critico degli xenotrapianti (individuando i potenziali rischi di trasmissione di malattie infettive da animale a uomo) e poi addirittura uomo simbolo di gruppi sostenitori della causa animalista (Cfr. W. Hancock, Xeno-stagnation, AST News, 1999). Non è esagerato, quindi, individuare anche nel mutato interesse di colossi farmaceutici un calo di investimenti e, di conseguenza, di risultati nel campo della ricerca sullo xenotrapianto. Molti trials clinici necessari per individuare risposte esaurienti sui rischi da infezioni sono stati bloccati, per il momento, in diversi paesi come la Gran Bretagna, l’Olanda e il Canada. La Federal Drug Administration, negli Stati Uniti, ha anticipato le nuove linee guida che regolamenteranno in maniera più restrittiva l’uso di tessuti di primati non umani a scopo di xenotrapianto. Tutto ciò, sia esso eccessiva cautela o inversione di tendenza (economica), fa sì che le risposte che la comunità scientifica si aspettava dallo xenotrapianto tardino sempre più ad arrivare.
Nell’affrontare l’argomento del trapianto fra specie diverse è, comunque, importante non trascurare due aspetti, l’uno di carattere tecnico e l’altro di carattere etico ma che, in qualche modo, sono tra di loro correlati. Dal punto di vista tecnico, Roy Calne, che alla fine degli anni ‘60 avviò a Cambridge, il primo programma europeo di trapianto di fegato definì “xenotrapianti concordanti” quelli tra specie vicine (per esempio, lo xenotrapianto babbuino-uomo, in quanto si tratta in entrambi i casi di primati); d’altra parte, egli defini` “xenotrapianti discordanti” quelli tra specie filogeneticamente lontane come il suino e l’uomo. Trapianti discordanti come nella combinazione suino-uomo vennero realizzati già negli anni ‘60, quando un chirurgo francese, Kuss, ed un cardiochirurgo inglese, Ross, trapiantarono rispettivamente il rene ed il cuore di un suino in un essere umano. I riceventi rigettarono acutamente gli organi nel giro di pochi minuti, dimostrando che il trapianto tra specie discordanti non era, e non è, di facile realizzazione. Nell’ultimo decennio diversi gruppi nel mondo si sono dedicati alla realizzazione di animali transgenici, nei quali l’espressione di alcune proteine umane sulla superficie cellulare possa ridurre e, possibilmente, prevenire, alcuni dei meccanismi del rigetto. Tuttavia, la ricerca in questo settore è ancora lontana dalla realizzazione di animali transgenici tali da poter essere utilizzati come donatori di organi per l’uomo senza sostanziali rischi di rigetto. Come accennato, l’animale più utilizzato a questo scopo nel mondo è il suino in quanto pone meno problemi etici rispetto all’utilizzo dei primati come donatori di organi per l’uomo.
Alcuni primati, come lo scimpanzé, sono filogeneticamente vicini all’uomo e negli anni ‘60 Keith Reemtsma della Tulane University negli Stati Uniti trapiantò con successo il rene di uno scimpanzé in una donna con insufficienza renale. L’organo funzionò, mantenendo la paziente viva per ben 270 giorni. Questa esperienza dimostrò con chiarezza, in un’epoca nella quale l’immunosoppressione utilizzata era senza dubbio rudimentale rispetto a quella disponibile oggi, che lo scimpanzé potrebbe in teoria, dal punto di vista immunologico, essere un ottimo donatore per l’uomo. Tuttavia, lo scimpanzé è una specie in estinzione e si calcola che oggi, su tutto il pianeta, non vi siano più di 70 esemplari disponibili ogni anno per la ricerca biomedica. E` evidente che 70 scimpanzé non risolverebbero il problema della scarsità delle donazioni e certamente solleverebbero importanti interrogativi etici sull’utilizzo di un primate così vicino all’uomo. Un’idea che potrebbe essere accettata è però quella di utilizzare gli organi di alcuni primati, diversi dallo scimpanzé, in casi di estrema gravità, quando cioè la vita di un uomo non potrebbe essere salvata altrimenti. Si potrebbe pensare di utilizzare, ad esempio, il fegato di un babbuino, solo temporaneamente, per una soluzione ponte, ossia impiantare il fegato di origine animale in attesa di trovare un organo umano. A Pittsburgh, il 28 giugno 1992 e il 10 gennaio 1993, due fegati di babbuini sono stati utilizzati per realizzare due differenti trapianti in pazienti affetti da epatopatia terminale legata a infezione dal virus dell’epatite B. Uno di questi pazienti sopravvisse per 70 giorni all’intervento e fu in grado di tornare a un’alimentazione per bocca e di muoversi liberamente allontanandosi anche brevemente dall’ospedale. Quell’esperienza dimostra con chiarezza che la soluzione “ponte” a cui si è accennato è un’ipotesi realizzabile.
Per concludere
E` evidente da quanto riassunto in questo articolo che la chirurgia e la medicina dei trapianti hanno compiuto progressi eccezionali nella seconda metà del secolo, raggiungendo risultati certamente insperabili 50 anni fa. Tuttavia, questa chirurgia è caratterizzata da costi altissimi a causa dell’utilizzo di alte tecnologie e del coinvolgimento di risorse umane che richiedono grande specializzazione e un impegno più intenso di quello richiesto in altre aree della medicina. Inoltre, l’intervento chirurgico che porta alla realizzazione di un trapianto (prelievo dal donatore e intervento di trapianto) costituisce ancora oggi un esercizio operatorio non solo complesso ma, in alcuni casi (trapianto di fegato, trapianti multiviscerali, ecc.) estremamente traumatico. Molti esperti di questo settore sono convinti che questo tipo di chirurgia sia destinato a scomparire nel secolo appena iniziato. Infatti, molte delle patologie che oggi necessitano di un trapianto potranno essere sconfitte domani attraverso un miglior approccio terapeutico (per esempio, la scoperta di antivirali efficaci o di vaccini per alcune delle malattie che determinano un’insufficienza epatica terminale) oppure attraverso il ricorso ad altri tipi di terapie che saranno messe a punto dalla ricerca nel settore del genoma umano. In altre parole, non si dovrà più ricorrere a interventi così traumatici e le malattie che determinano l’insufficienza terminale di un organo potranno essere prevenute o curate prima di arrivare all’esaurimento funzionale dell’organo stesso. Ma, anche se destinata a scomparire, la chirurgia dei trapianti rappresenterà sempre nella storia della medicina un’importantissima fase di crescita culturale e scientifica. Soltanto attraverso lo stimolo acutissimo nella ricerca di soluzioni alla sopravvivenza dell’organo trapiantato è stato possibile investire risorse intellettuali ed economiche per arrivare a decifrare i meccanismi immunologici che regolano il sistema immunitario umano. Ed è anche stato attraverso la ricerca scientifica che ha preceduto e seguito, nei laboratori di tutto il mondo, la realizzazione dei trapianti d’organo, che è stato possibile comprendere i meccanismi fisiologici e biologici di funzionamento di molti organi. Queste conoscenze sono divenute patrimonio della medicina e sono state applicate in molti altri settori a beneficio di milioni di pazienti anche non affetti da malattie curabili con un trapianto di organo.
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano Alessandra Cattoi e Claudia Cirillo per la raccolta e la elaborazione dei dati storico-scientifici necessari per la stesura di questo articolo, per i loro suggerimenti e la loro revisione critica.
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