Uno studio dei ricercatori di Sapienza – Università e Istituto Pasteur di Roma accende un campanello d’allarme sull’importanza di riconsiderare i metodi di analisi della metilazione del Dna. Si tratta di un parametro fondamentale negli studi di epigenetica, la scienza che studia come l’ambiente può influenzare l’espressione dei nostri geni. Lo studio, pubblicato su Plos One, è firmato da Andrea Fuso (Dipartimento di Psicologia e Fondazione Santa Lucia) e Marco Lucarelli (Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia e Istituto Pasteur – Fondazione Cenci Bolognetti).
L’epigenetica è lo studio dei fenomeni che, senza mutare ciò che è scritto nel Dna, imprimono un marchio sul genoma (epi in greco significa stare sopra). Tale “segno” istruisce le cellule su come e quando leggere determinati geni, regolando così la loro espressione. L’analisi epigenetica ha una grande importanza biomedica: non tutto ciò che siamo (la nostra longevità, le malattie di cui potremmo soffrire) è svelato dall’ordine in cui le basi azotate che compongono il Dna (adenina, timina, citosina e guanina) si alternano lungo la doppia elica. Ciò che siamo dipende anche dalla maniera in cui l’informazione contenuta nel Dna si presta a essere letta dalle cellule.
I meccanismi che “segnano” il Dna sono numerosi, molto spesso orchestrati dall’ambiente, e svolgono un ruolo fondamentale durante lo sviluppo e la vita adulta. “La metilazione del Dna” spiega Andrea Fuso “è la più nota e più studiata fra le modificazioni epigenetiche e consiste nell’aggiunta di un gruppo metilico sui residui di citosina. Questo ‘marchio’ riveste un ruolo rilevante nei fenomeni che portano a diverse manifestazioni patologiche – fra cui le malattie neurodegenerative e muscolari. Le evidenze scientifiche disponibili fino a oggi hanno fatto ipotizzare che, nei mammiferi, la metilazione avvenisse quasi esclusivamente sulle citosine seguite da un residuo di guanina (CpG), relegando la cosiddetta ‘metilazione non-CpG’ a una percentuale inferiore al 10% e solo in specifiche cellule”.
I ricercatori della Sapienza e dell’Istituto Pasteur hanno individuato un problema nella tecnica maggiormente usata per determinare i livelli di metilazione del Dna (la modificazione con bisolfito) che non permette di rilevare la metilazione non-CpG e causa una sottostima anche per quella CpG. Marco Lucarelli spiega che “sull’assunto che le citosine non-CpG non siano metilate, sono stati sviluppati vari software per disegnare i primers (brevi sequenze di Dna) necessari a riconoscere le porzioni di Dna metilato e quindi per misurarne i livelli nelle cellule. Con il nostro lavoro, però, dimostriamo che l’uso di tali software determina una sottostima, in particolare in condizioni di metilazione elevata”.
Questi risultati indicano la necessità di rivalutare l’estensione e il ruolo della metilazione non-CpG e accendono un campanello d’allarme per gli studi epigenetici pregressi, che hanno importanti ricadute in ambito biomedico.
Riferimenti: Andrea Fuso, Giampiero Ferraguti; Sigfrido Scarpa; Isidre Ferrer and Marco Lucarelli Disclosing Bias in Bisulfite Assay: MethPrimers Underestimate High DNA Methylation Plos One Doi: 10.1371/journal.pone.0118318
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