Brasile 2014, la vittoria contro la deforestazione

aree selvagge

Dal Brasile arriva una buona notizia: l’Amazzonia, il polmone verde della Terra, ormai sembra passarsela piuttosto bene. Sicuramente meglio che negli anni ’90, quando l’area di foresta pluviale abbattuta per fare posto a campi coltivati e allevamenti era aumentata velocemente, arrivando a raggiungere le dimensioni della Spagna. Dal 2009 la deforestazione in Amazzonia è crollata invece del 70%, raggiungendo oggi i livelli minimi dagli anni ’70. Ma come ha fatto una regione che per decenni ha rappresentato il peggiore esempio dei crimini dell’uomo nei confronti della natura, a trasformarsi oggi in un simbolo di redenzione ambientale? Secondo Dan Nepstad, ricercatore dell’Earth Innovation Institute di San Francisco, il merito è degli interventi messi in campo dal governo brasiliano nel corso degli anni, e delle pressioni internazionali sui coltivatori. Un percorso che, come descritto sulle pagine di Science, è passato attraverso tre fasi ben precise.

In un primo periodo, che va dalla metà degli anni ’90 fino al 2004, il governo avrebbe concentrato gli sforzi su una politica di divieti e restrizioni. All’epoca si discuteva molto del Brazilian Forest Code, legge del 1965 che prevedeva l’obbligo per i proprietari terrieri dell’Amazzonia di preservare almeno il 50% della foresta pluviale nei loro possedimenti. L’area protetta venne quindi allargata fino all’80%, ma la legge non venne mai applicata. Colpa secondo Nepstad di un limite irrealistico, e del prezzo della soia salito alle stelle che fece aumentare il numero di piantagioni, con il risultato di accelerare i ritmi (già alti) della deforestazione.

La seconda fase individuata da Nepstad va invece dal 2005 al 2009, periodo in cui il governo brasiliano cercò di aumentare i controlli nella regione. Il presidente Luis Inácio Lula da Silva rese la lotta alla deforestazione una priorità del suo governo, rendendo possibile una migliore cooperazione tra la polizia e la magistratura. Contemporaneamente si assistette ad un crollo delle esportazioni della soia, miglioramenti nelle tecniche diselezione del bestiame che permisero di rimpicciolire le dimensioni degli allevamenti, e un forte boicottaggio internazionale nei confronti dei proprietari terrieri. Tutti insieme, questi diversi fattori iniziarono a dare i frutti sperati, e la velocità della deforestazione iniziò a calare.

L’ultima fase ha avuto inizio invece nel 2009, quando il prezzo della soia è tornato a salire, e l’efficacia delle politiche ambientali brasiliane è stata messa realmente alla prova. Il governo ha reagito con una strategia punitiva: i coltivatori delle 36 contee con i livelli peggiori di deforestazione sono stati esclusi daifinanziamenti pubblici fino al miglioramento della situazione ambientale nella loro area. L’atteggiamento del governo si è rivelato efficace, e la deforestazione ha continuato a procedere ai livelli degli anni precedenti.

Il successo del Brasile nel contrastare la distruzione della foresta Amazzonica può quindi rappresentare secondo Nepstad un modello per altri paesi, come l’Indonesia e il Congo, che oggi si rivelano incapaci di contrastare i fenomeni di deforestazione. Fondamentale perché la politica brasiliane funzionasse è stato però l’appoggio dei mercati, che hanno collaborato nel fare pressione sui proprietari terrieri e gli allevatori. Va ricordato infatti che anche se a ritmi minori, la distruzione della foresta amazzonica prosegue ancora, con oltre 5.000 chilometri quadrati di foresta distrutti annualmente. I responsabili sono principalmente piccoli possidenti, che risentono ben poco dei boicottaggi internazionali. Il governo brasiliano dovrà quindi trovare nei prossimi anni un modo per convincere anche loro.

Via: Wired.it

Credits immagine:  CIAT International Center for Tropical Agriculture/Flickr

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