Le donne rappresentano il 50 percento della popolazione, eppure nell’ambito dell’assegnazione dei brevetti negli Stati Uniti la loro percentuale scende al 10 percento. E anche nell’ambito delle scienze della vita – campo in cui il sesso femminile è numericamente ben rappresentato – il dato non supera il 15 percento. In sostanza, le donne vengono più facilmente rigettate dalle commissioni le loro richieste di brevetto, presentano meno ricorsi, e ancor meno ricorsi risultano essere accolti rispetto a quelli avanzati dagli uomini. Inoltre i brevetti ottenuti dalle donne ricevono meno citazioni e i diritti sul brevetto sono spesso meno rinnovati dai loro assegnatari.
Questo è quanto emerge da uno studio, condotto da un team dell’Università di Yale e pubblicato sulla rivista Nature Biotechnology, in cui i ricercatori hanno esaminato gli iter di approvazione di circa 2.7 milioni di richieste di brevetto in un arco di tempo compreso tra il 2001 e il 2014, grazie anche al rilascio di questi dati nel loro insieme effettuato dallo US Patent and Trademark Office (USPTO). Con i dati ottenuti il team ha potuto esaminare le comunicazioni che avvenivano tra i richiedenti e gli esaminatori, il modo in cui i richiedenti variavano le loro richieste durante l’iter, i dati delle varie comunicazioni, i pagamenti per il mantenimento dei diritti sui brevetti, il flusso di citazioni e altri eventi.
In particolare, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sulla capacità che hanno i nomi propri di determinare il genere degli inventori e quindi la probabilità che gli esaminatori avevano di inferire il sesso dal nome. Questo perché se da nomi comuni come Mary e Robert si può facilmente inferire il sesso di una persona, esistono anche nomi rari (unici o esotici) posseduti solo da pochi individui su cui non è facile fare inferenze. Jemeire e Kunnath, per esempio, anche se sono fortemente associati al genere (il primo è un nome maschile e il secondo è femminile), data la loro rarità possono risultare difficili da inquadrare leggendoli su un documento.
Per determinare il genere di ogni inventore, gli studiosi si sono serviti del database governativo US Social Security Administration più altri due database commerciali. Restringendo l’analisi ai brevetti che riportavano un singolo inventore, il team ha notato delle significative differenze tra i brevetti che riportavano nomi comuni da quelli con nomi rari. Tra gli inventori con nomi propri comuni, le donne hanno avuto l’8.2% di probabilità in meno rispetto agli uomini di vedere le proprie richieste di brevetto accolte. Di contro, tra gli inventori con nomi rari, le donne hanno avuto solo il 2.8% in meno di probabilità rispetto agli uomini. Un dato questo – sottolineano i ricercatori – che permette di fare alcune ipotesi sulle cause del fenomeno: visto che la disparità di trattamento è più marcata nel caso di nomi comuni, di cui è facile inferire il genere da una semplice lettura delle carte, è probabile che in larga parte la discriminazione a cui si assiste nasca dagli esaminatori che devono approvare le richieste, e non da un diverso comportamento delle scienziate e di chi le assiste nel presentare la domanda di brevetto.
Inoltre, i nuovi richiedenti citano i brevetti registrati da donne il 30% in meno rispetto agli inventori uomini con nomi comuni. Invece, i brevetti depositati da donne con un nome proprio raro sono stati citati circa il 20% più spesso rispetto alla media degli inventori maschi (sempre con nome raro e a parità di parametri). L’entità maggiore delle citazioni riflette la qualità dei brevetti e questo risultato suggerisce – scrivono i ricercatori – che gli inventori di sesso femminile devono superare un ostacolo più grande rispetto agli uomini e che quindi la media dei brevetti assegnati agli inventori di sesso femminile è di una qualità maggiore rispetto ai brevetti concessi agli uomini.
Alla luce dei risultati ottenuti i ricercatori propongono alcune soluzioni come quella di tenere nascosta l’identità dei richiedenti, di riportare solo le iniziali dei nomi propri sui brevetti e sulle nuove richieste e ipotizzano una piattaforma che consenta la comunicazione tra esaminatori e richiedenti in grado di mantenere l’anonimato, il tutto al fine di migliorare le disparità di genere nelle concessioni dei brevetti sia nell’ambito delle scienze della vita che delle aree tecnologiche.