E’ una delle bufale scientifiche più dure a morire. Viva e vegeta a quasi vent’anni dalla pubblicazione dell’articolo-frode in cui Andrew Wakefield sosteneva che la somministrazione del vaccino trivalente fosse correlata all’insorgenza di autismo e problemi intestinali nei bambini. Nonostante le decine di studi e indagini che lo hanno completamente sbugiardato, infatti, il lavoro di Wakefield è tra i più discussi in rete. L’ultima è di pochi giorni fa: Robert de Niro, cofondatore del Tribeca Film Festival, una kermesse cinematografica statunitense, ha inserito nel programma della manifestazione la proiezione del docufilm Vaxxed, diretto dallo stesso Wakefield e relativo, ancora una volta, alla correlazione tra vaccini e autismo. La decisione dell’attore statunitense – genitore, tra l’altro, di un ragazzo autistico – ha scatenato feroci polemiche, in seguito alle quali de Niro ha deciso di annullare la proiezione del film. Un evento salutato da più di un debunker – tra cui Paolo Attivissimo, punto di riferimento del debunking italiano – come una grande vittoria di tutti quelli che si battono per “contrastare false credenze e complottismi”.
Peccato che le cose non siano così semplici. Perché de Niro non ha affatto cambiato idea in seguito agli sforzi dei debunker. Tutt’altro, all’indomani della cancellazione di Vaxxed ha pensato bene di ribadire che, comunque, “il film andrebbe visto”, in modo tale che tutti “possano farsi la propria opinione”. La questione della circolazione delle bufale online, di cui l’affaire Wakefield non è che la punta dell’iceberg – una goccia nel mare magnum delle bufale che si diffondono in rete –, è purtroppo ben più complessa e articolata. Che certamente non si esaurisce con il botta e risposta tra complottisti e debunker.
A confermarlo sono diversi lavori scientifici (questo, questo e questo, per esempio) pubblicati dall’équipe di Walter Quattrociocchi, dell’Imt School for Advanced Studies di Lucca, che da tempo si occupa dello studio quantitativo della circolazione dell’informazione online. In particolare, il team di Quattrociocchi ha analizzato un imponente corpus di contenuti pubblicati su Facebook (e delle relative interazioni degli utenti con tali contenuti, soprattutto in termini di “mi piace”, commenti e condivisioni), svelando, come ci ha raccontato, che “il principale determinante che guida la selezione dei contenuti online e dell’interpretazione dei fatti è il cosiddetto confirmation bias, o pregiudizio di conferma”. In sostanza, dicono i dati raccolti dai ricercatori, la rete non serve per informarsi, ma per raccogliere conferme rispetto a qualcosa che già si ritiene vera. Ovvero, in altre parole, per certificare la propria appartenenza a una tribù (“Debunking in a world of tribes” è il titolo di uno degli articoli di Quattrociocchi e colleghi) e rimanere ben protetti sotto il guscio dei propri simili.
“Abbiamo osservato”, continua ancora Quattrociocchi, “che sui social network coesistono comunità fortemente polarizzate e omofile, cioè del tutto incapaci di interagire costruttivamente le une con le altre. Sono le cosiddette echo chambers, o camere di risonanza, stanze chiuse in cui si amplifica solo e soltanto la propria voce”. In particolare, gli scienziati si sono concentrati sull’analisi di due narrative, quella “scientifica” e quella complottista, scoprendo che per entrambe valgono le stesse dinamiche. E che per gli appartenenti a entrambe le “tribù” è praticamente impossibile riuscire a interagire con chi è nella tribù opposta. “La viralità delle informazioni pubblicate in ciascuna echo chamber, cioè quanto l’informazione si diffonde, è proporzionale alla dimensione della echo chamber stessa”, ci spiega Quattrociocchi. “Vuol dire che quasi tutte le informazioni – il 97%, per la precisione – tendono a rimanere all’interno della echo chamber, arrivando solo a chi ne fa già parte”.
Arriviamo così, finalmente, al debunking. “I nostri studi”, sottolinea Quattrociocchi, “mostrano che l’efficacia del debunking, proprio in virtù del fatto che le informazioni non riescono ad arrivare all’interno dell’altra ‘tribù’, è molto limitata. C’è di più: abbiamo osservato che spesso gli sforzi dei debunker sortiscono l’effetto opposto. Ovvero contribuiscono ad alzare ulteriormente le barricate, rinforzare la chiusura cognitiva di chi la pensa in modo diverso e abbassare la qualità complessiva dell’informazione”. Come uscire dal ginepraio delle bufale? “Una strategia che stiamo esplorando quantitativamente”, conclude lo scienziato, “è quella di inserirsi all’interno di un’echo chamber con una narrazione coerente alla stessa e provare a perturbarla, poco a poco, con messaggi lievemente dissonanti”. Una sorta di cavallo di Troia virtuale: staremo a vedere.