I fisici la chiamano particella di Dio – o semplicemente Dio, come amava definirla Margherita Hack –, anche se il suo nome originale era particella maledetta (goddamn particle). Perché il bosone di Higgs è stato, in effetti, maledettamente difficile da trovare: ci sono voluti quasi quarant’anni dalla previsione della sua esistenza, postulata nel 1964 da Peter Higgs, per osservarlo in laboratorio (o per lo meno, per vedere qualcosa che gli assomigliasse parecchio). È passato un anno da quando gli scienziati del Cern hanno annunciato di aver registrato la traccia di “una nuova particella nella regione di massa attorno a 126,5 GeV”, compatibile quindi con la massa prevista per l’Higgs, nel corso di due esperimenti separati, Atlas e Cms, svolti entrambi al Large Hadron Collider, l’enorme acceleratore di particelle di Ginevra. Ma i fisici, nonostante la somiglianza fosse davvero parecchia, sono stati cautissimi e hanno sciolto la riserva solo otto mesi dopo la scoperta, confermando che la particella osservata era proprio lo sfuggente bosone. Per celebrare il primo compleanno dell’Higgs, vi riproponiamo le tappe essenziali della sua scoperta, dalla previsione all’osservazione. Fino a quello che è successo dopo, durante quest’ultimo anno.
Cos’è
Per capire perché gli scienziati si sono affannati così tanto a cercare il bosone di Higgs è indispensabile ricapitolare brevemente cosa sia (qui una trattazione più approfondita). Si tratta di una particella che conferisce una massa a tutta la materia presente nell’Universo: la teoria prevede che il campo dell’Higgs pervada tutto lo spazio in cui le altre particelle si muovono. Come i fotoni trasferiscono energia alle particelle che incontrano, così i bosoni di Higgs sarebbero dunque vettori di massa.
La teorizzazione
A metà degli anni Sessanta, i fisici avevano intuito l’esistenza di un legame tra due delle quattro forze fondamentali, la forza debole e la forza elettromagnetica: le due forze potevano essere descritte dalla stessa teoria, che forma le basi del cosiddetto modello standard delle particelle elementari. Questa unificazione implica che l’elettricità, la luce, il magnetismo e alcuni tipi di radioattività sono manifestazioni di un’unica forza, nota come forza elettrodebole. Le equazioni del modello standard descrivevano bene la forza elettrodebole e le particelle a essa associate, ma c’era un problema: tali particelle – il fotone, il bosone W e il bosone Z, secondo la teoria, non avevano massa. Sperimentalmente era stato osservato, invece, che W e Z pesavano cento volte più di un protone. Fortunatamente, i fisici Robert Brout, François Englert e Peter Higgs proposero, per risolvere l’intoppo, un meccanismo che conferisse massa a W e Z tramite l’interazione con un campo invisibile. Il campo di Higgs, per l’appunto. Che, come ogni campo, doveva necessariamente essere associato a una particella. Voilà. Per far tornare i conti, il bosone doveva esistere.
C’è, ma non si vede
Perché, nonostante gli sforzi della comunità scientifica, c’è voluto così tanto tempo per trovare l’Higgs? Il motivo sta nella sua massa, troppo alta per essere rilevata dagli acceleratori di vecchia generazione. È stato necessario costruire il mastodontico Lhc per riuscire a individuare una particella di 125 GeV (data l’equivalenza tra massa ed energia, i fisici esprimono il peso di una particella in elettronvolt, ossia l’energia persa o guadagnata da un elettrone che si sposta tra una differenza di potenziale di un volt). Inoltre, il bosone, decadendo, non produce particelle che provano in modo univoco la sua esistenza: in altre parole, è come se non avesse una firma particolare ( “La natura è stata dispettosa con noi”, diceva subito dopo la scoperta il fisico David Evans).
La fisica dopo la scoperta
Dopo il 4 luglio 2012 iniziato un periodo frenetico e impegnatissimo per i fisici delle particelle. Era stato osservato qualcosa che assomigliava moltissimo al bosone. Ma, perché il modello standard fosse salvo, bisognava sapere con sicurezza che si trattasse proprio di lui e non di un suo sosia. L’unico modo per provarlo era raffinare le misure, aspettare i risultati di esperimenti indipendenti e analizzare ancora più in dettaglio le misure. Ed è stato esattamente quello che è successo. Il Cern ha firmato un contratto con il Wigner Research Centre for Physics di Budapest per aumentare la potenza di calcolo del Cern Data Centre e ha avviato una nuova sessione di misure, che hanno fornito il quadruplo dei dati rispetto a quelli provenienti dagli esperimenti di luglio. Si trattava di una mole impressionante di informazioni: per analizzarle, gli scienziati hanno chiesto l’aiuto di tutti, mettendo a disposizione i dataset perché potessero essere scandagliati alla ricerca di eventi Higgs. Non è arrivato il Nobel, ma gli sforzi sono stati comunque premiati: a marzo 2013, infatti, gli scienziati hanno sciolto ogni riserva e confermato che la particella osservata è proprio il bosone di Higgs.
Cosa resta da fare
Stando a quello che abbiamo imparato nell’ultimo anno, dunque, l’ipotesi di Peter Higgs era giusta. Ma restano molte questioni aperte. Il bosone (ormai possiamo chiamarlo così) ha ancora dei segreti da svelare: è esattamente come previsto dalla teoria o ha qualche caratteristica più esotica? “I risultati sono grandiosi ed è chiaro che abbiamo a che fare con un bosone di Higgs. Ma c’è ancora molta strada da fare per capire quale tipo di bosone sia”, ha detto Joe Incandela, portavoce di Atlas. Per capire se sia proprio quello del modello standard, infatti, gli scienziati dovranno misurare precisamente il tasso con cui il bosone decade in altre particelle e confrontare i risultati con le previsioni. Ma, al momento, si osserva solo un bosone ogni trilione di collisioni protone-protone. Quindi ci vorrà ancora un bel po’ di tempo, prima di sapere altro. Tanto più che Lhc sarà a riposo fino al 2015.
Via: Wired.it
Credits immagine: Ethan Hein/Flickr