La legalizzazione dell’eutanasia assistita dai medici non genera l’aumento di questa pratica, nemmeno sui gruppi di pazienti vulnerabili (cioè svantaggiati dal punto di vista socioeconomico, dell’età o della malattia da cui sono colpiti). È il risultato di uno studio condotto da ricercatori olandesi e americani e pubblicato sul Journal of Medical Ethics. Dunque nessuna “china scivolosa” provocata dalla legittimità del suicidio assistito, come invece hanno sempre accusato gli oppositori della buona morte, secondo cui i medici e i parenti sarebbero portati a “eliminare” soprattutto quei pazienti che rappresentano un peso per le famiglie e la società: disabili, persone con malattie mentali o comunque stigmatizzate.
Analizzando i dati relativi all’eutanasia praticata tra il 1998 e il 2006 in Olanda e in Oregon (lo Stato americano nel quale è ammessa da circa dieci anni), e tre studi indipendenti sull’argomento, i ricercatori concludono invece che non vi è alcuna giustificazione alle preoccupazioni di eventuali abusi, presenti e futuri. In Olanda, paese in cui l’eutanasia volontaria e medicalmente assistita è tollerata sin dagli anni Ottanta e regolamentata da linee guida dal 2002, circa l’1,7 per cento di tutti i decessi nel periodo esaminato rientrano nella categoria “eutanasia”, e di questi appena lo 0,1% può essere considerato come “suicidio assistito”. In Oregon hanno scelto questa strada 292 malati terminali, pari allo 0,15 per cento di tutti i decessi. L’età media dei pazienti aiutati a morire dai medici è simile nei due paesi: 70 anni. Si tratta, scrivono gli studiosi, soprattutto di persone colpite da tumore, ma con una presenza significativa di malati di Aids. (e.m.)