“I safari di caccia sono un crimine, mettiamoli al bando”

caccia al trofeo
Il leone Cecil nel Parco Nazionale Hwange, Zimbabwe (2010)

Uccidere animali per diletto è un’attività che divide. E può diventare anche un argomento molto sensibile, come accaduto per esempio con l’uccisione del leone Cecil che ha attirato l’attenzione e le critiche dei media di tutto il mondo. Si è persino invocata l’accusa di caccia illegale per il dentista americano che ha ammesso di aver ucciso Cecil.

Ma nonostante le forti reazioni che provoca talvolta, molte persone restano all’oscuro di quanto effettivamente la caccia al trofeo sia diffusa. Il Fondo internazionale per il benessere animale informa che, tra il 2004 e il 2014, in totale 107 paesi hanno contribuito al business dei trofei. In quel periodo, si stima si siano messi in commercio più di 200 mila trofei di specie minacciate (per non parlare di 1,7 milioni di animali non minacciati d’estinzione).

I cacciatori di trofei si fanno pagare molto per fare quello che fanno (l’Ifaw denuncia più di 100 mila dollari per una battuta di caccia di 21 giorni). Ma i dati disponibili sui vantaggi economici che porta ai paesi ospiti restano limitati e contestati.

Ora il governo britannico ha dichiarato di valutare il divieto di commercio per trofei di specie a rischio – rendendone perseguibile l’importazione.

I difensori della caccia al trofeo – tra cui alcune grandi organizzazioni di salvaguardia come l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, IUCN, e il WWF – affermano che cacciare animali selvatici possa produrre benefici ecologici superiori. Concordi con alcuni governi, sostengono che una caccia “ben fatta” è uno strumento di conservazione efficace, capace inoltre di aiutare le comunità locali.

L’argomento si fonda sui ricavi che questi trofei fruttano e sul fatto che, si sostiene, possono essere reinvestiti in attività di tutela animale.

L’idea in senso lato è che pochi animali (spesso minacciati) possano essere sacrificati per il bene superiore della sopravvivenza della specie e della biodiversità. Inoltre le comunità locali in questo modo beneficiano finanziariamente dell’abbondanza delle popolazioni animali, piuttosto che vederle come una minaccia, e possono guadagnare attraverso le operazioni di caccia, o mettendo a disposizione gli alloggi oppure vendendo beni.

Di certo, le ricerche mostrano come la caccia al trofeo possa portare sostanziali benefici economici, come sia probabilmente appoggiata dalle comunità locali e possa essere associata a miglioramenti nella conservazione delle specie.

Ma su quest’ultimo punto resta poco chiaro in quali circostanze esattamente la caccia produca un effetto positivo valutabile sulla salvaguardia animale. Non possiamo poi pensare che uno schema che funziona in un paese, e su una specie, in specifiche circostanze, sia applicabile a tutte le altre specie e luoghi.

Inoltre, i vantaggi presunti si fondano su una gestione sostenibile del territorio, sul reinvestimento di profitti, e sul coinvolgimento delle comunità locali. Ma possiamo immaginare quanto queste condizioni siano soddisfatte, data la corruzione percepita e la mancanza di regole certe in alcuni dei paesi in cui la caccia è diffusa.

E se la caccia al trofeo è davvero così redditizia, c’è sempre la possibilità che i profitti finiscano per riempire le tasche di ricchi (e possibilmente stranieri) operatori e ufficiali.

Morte e sofferenza

Questo ci porta dritti alla questione etica. Solo perché qualcosa potenzialmente può avere un vantaggio sociale, non significa che sia etico. E se non è tale, dovrebbe essere considerato un crimine? Questo è un punto su cui la politica si confronta continuamente. Se il danno che un programma politico introduce è maggiore del danno che si presume riduca, allora non è etico dargli seguito.

Direi che persino se esistessero prove convincenti che la caccia al trofeo possa produrre dei vantaggi per la salvaguardia, non è etico causare la morte e la sofferenza di individui animali per salvare una specie.

D’accordo con alcuni criminologi “verdi”, ho una prospettiva critica sugli studi dei crimini legati all’ambiente o al mondo animale. Ciò significa che sono interessata a comportamenti che possono essere intesi come dannosi e potrebbero essere etichettati come “crimini” anche se non sono formalmente perseguiti. Questo approccio è particolarmente importante, quando guardiamo al danno globale e a coloro che gravano pesantemente sui più deboli nella società.

La salvaguardia riguarda la biodiversità e le popolazioni animali. Questa cozza con la prospettiva dei diritti animali o della giustizia di specie, dove invece di concentrarsi sui diritti che l’uomo ha sopra tutte le altre specie, sono presi in considerazione l’interesse e i diritti intrinsechi dell’individuo o dei gruppi animali.

Da questo punto di vista, la caccia al trofeo è senza ombra di dubbio dannosa. Porta dolore, terrore, sofferenza e morte. E poi il lutto e la rottura di gruppi famigliari o sociali che patiscono animali come gli elefanti, le balene, i primati e le giraffe. Alla luce di ciò, la caccia al trofeo merita sicuramente di essere bollata come un crimine.

Permetterla, perpetua inoltre l’idea secondo cui gli animali sono inferiori agli uomini. Trasforma la fauna selvatica in una merce, piuttosto che farne esseri viventi, senzienti e autonomi – esseri che ritengo dovrebbero essere visti come vittime di un crimine.
La visione antropocentrica facilita e normalizza lo sfruttamento, la morte e il maltrattamento degli animali. Questi effetti dannosi si possono vedere nell’allevamento intensivo, nei parchi marini e nella “caccia in scatola”, dove animali selvatici (normalmente leoni) sono allevati in cattività e spesso drogati per prendere parte a operazioni di caccia al trofeo. Dove si possono fare soldi dagli animali, lì arrivano anche sfruttamento e crimini sulla fauna selvatica.

Al contrario, le comunità locali devono essere coinvolte nelle decisioni a proposito della salvaguardia e gestione della terra, ma non a discapito di specie in pericolo o di individui animali cacciati per sport. Vanno abbracciate forme alternative come il foto turismo e programmi per ridurre i conflitti uomini-animali.

Mettere al bando la caccia al trofeo potrebbe diventare quell’incentivo che serve per sviluppare approcci creativi alla protezione animale e alla coesistenza con gli uomini. Che può comunque generare ricchezza.

Dunque i governi di tutto il mondo dovrebbero introdurre dei divieti sull’importazione dei trofei – e accanto sostenere forme di sviluppo alternativo ed etico di cui possano beneficiare sia gli animali selvatici che le comunità locali. Chiedere di meno è solo dare supporto complice a un crimine contro alcune delle specie selvatiche più vulnerabili del mondo.

Articolo apparso orginariamente in inglese su The Conversation. Traduzione a cura delle redazione di Galileo.

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