Giappone e Australia ai ferri corti. Il motivo della tensione è ancora una volta la caccia baleniera. Il Sol Levante sostiene di uccidere i cetacei per scopo scientifico (consentito dalla Convenzione Internazionale sulla Caccia Baleniera) e l’Australia dice che non è vero. Così il ministro degli Esteri Kevin Rudd e il ministro dell’Ambiente Tony Burke hanno presentato alla Corte di Giustizia dell’Aja un rapporto che denuncia le violazioni dei cacciatori nipponici alle norme internazionali. Il Giappone dovrà rispondere alle accuse entro il 9 marzo 2012.
Le ragioni del governo australiano non sono infondate. Nel giugno del 2008 due attivisti di Greenpeace, Junichi Sato e Toru Suzuki, noti come i “Tokyo Two”, smascherarono un traffico di carne di contrabbando nel deposito postale di Amaori nel nord del Giappone per un valore di circa 3.000 dollari. Per il primo ministro australiano Julia Gillard fu la conferma di ciò che da tempo già sapeva: le baleniere giapponesi che solcano l’Oceano Antartico perseguono esclusivamente scopi commerciali, lasciando tra l’altro tonnellate di carne invenduta. Se a ciò si aggiunge l’inconsistenza degli studi scientifici finora presentati dal Giappone (vedi Galileo), diventa sempre più difficile per gli australiani dare credito a quel millantato “piano di ricerca scientifica” nelle acque intorno al polo Sud.
Ma se non viaggiano in nome della scienza, le baleniere sono fuori legge. La Convenzione Internazionale sulla Caccia Baleniera firmata nel 1986 introdusse infatti una moratoria mondiale che consentiva solo due tipi di caccia: per sostentamento, permessa solo ad alcune popolazioni indigene (l’appiglio a cui si aggrappano Islanda e Groenlandia) e per ricerche scientifiche (l’ancora di salvezza del Giappone).
Negli anni si sono succeduti tentativi per rendere le norme internazionali più restrittive, vietando la caccia alle balene tout court, ma anche, al contrario, proposte per liberalizzarla. Per esempio, un anno fa (vedi Galileo) i vertici della Commissione baleniera invitarono ad abbandonare il lungo atteggiamento proibizionista per consentire nei prossimi dieci anni ai paesi cacciatori (Norvegia, Giappone, Islanda) la cattura dei cetacei in quote stabilite.
La proposta, che sollevò un vespaio di critiche, non fu approvata: cacciare per scopi commerciali resta quindi un reato. Spetterà alla corte dell’Aja stabilire se il Giappone se ne è macchiato.