Cambiano le priorità per i membri del Comitato promotore del referendum contro la caccia in Piemonte. Quella battaglia nata nel lontano 1987 all’insegna della tutela della fauna selvatica si è trasformata ora in una lotta per i diritti civili. E se fino a qualche giorno fa nei loro slogan si parlava della necessità di ridurre le specie cacciabili e imporre nuove restrizioni agli amanti delle doppiette, oggi si rivendica “il ripristino della democrazia e del diritto costituzionale alla partecipazione”, si denunciano furti di legalità, atti liberticidi degni del Cile di Pinochet, attentati alla sovranità popolare.
Ripercorriamo i fatti. Il referendum che era previsto per il prossimo 3 giugno e che chiedeva di abrogare alcuni articoli della legge regionale sulla caccia (70/96) è stato annullato. A seggi quasi pronti è arrivato infatti il dietrofront del Consiglio Regionale: andare a votare costa troppo (22 milioni di euro secondo i suoi calcoli molti di meno per il Comitato si fosse votato insieme alle amministrative) e in tempi di crisi bisogna risparmiare. Così il 4 maggio un articolo inserito nella legge finanziaria regionale ha abrogato la normativa oggetto di referendum (facendo cadere il referendum stesso) e introdotto una nuova disciplina che rinvia a quella nazionale (157/92) per colmare temporaneamente il vuoto legislativo. Le quattro novità, raccolte in unico quesito, che gli ambientalisti speravano di poter introdurre con il voto del 3 giugno (eliminazione di 25 specie cacciabili, divieto di caccia con la neve, divieto di caccia la domenica, maggiori restrizioni per le aziende faunistiche) diventano così un miraggio ancora più lontano.
“Ma attenzione”, avverte Alfonso Celotto professore di diritto costituzionale all’Università degli studi Roma Tre, “non c’è nulla di anticostituzionale in quello che è accaduto. La prassi è prevista dalla legge sul referendum 352/70: quando viene modificata la normativa oggetto del referendum nel verso indicato nel quesito già proposto, gli organi competenti, ossia la Corte Costituzionale nel caso nazionale, la Commissione di Garanzia nel caso specifico del Piemonte, valutano se il referendum è ancora ammissibile. La Commissione si è espressa a favore dell’annullamento e la giunta ha di conseguenza cancellato l’appuntamento per il voto. Le polemiche possono avere un senso sul piano politico, non su quello del giuridico”. Il Comitato però insiste sui diritti calpestati, e infatti nella manifestazione nazionale indetta per il 3 giugno a Torino, stessa data in cui si sarebbe dovuto svolgere il referendum, chiederà “il ripristino del diritto costituzionale alla partecipazione”.
“Sarà una manifestazione per la democrazia”, spiega Roberto Piana del Comitato promotore e vicepresidente della Lac (Lega per l’abolizione della caccia). “Intanto abbiamo previsto due strade legali, il ricorso al Tar e la richiesta di scioglimento del Consiglio regionale in base all’articolo 126 della costituzione per gravi violazioni di legge”.
La storia infinita
Tutto ebbe inizio nel 1987, anno in cui venne dichiarato per la prima volta ammissibile lo stesso quesito referendario di cui parliamo oggi. La legge che 60mila cittadini avevano chiesto di riformare era la n. 60 del 1979. Da allora il referendum tenta invano di entrare nelle cabine elettorali: è passato per nove gradi di giudizio, sentenze contraddittorie, dispute di competenza tra tribunali amministrativi e ordinari. Sì, perché in questo lungo periodo di tempo si sono avvicendate diverse leggi sulla caccia, con l’ultima che inglobava tutte le precedenti in un sistema a matrioska. Ogni volta quindi è toccato ai giudici stabilire se gli stessi quesiti previsti per una norma fossero trasferibili alla successiva. Così il referendum si è trascinato di aula in aula fino alla sentenza del 29 dicembre 2010 della Corte d’Appello di Torino che aveva pronunciato la fatidica frase: “il referendum s’ha da fare”. L’appuntamento, come sappiamo, era per il 3 giugno.
Ma poi tutto è ricominciato da capo e l’infernale ruota delle decisioni politiche e dei ricorsi legali si è rimessa in moto: la legge viene abrogata e sostituita da una nuova. Torna la questione della trasferibilità: bisogna capire, ancora una volta, se la nuova normativa modifichi o meno i principi della disciplina precedente. Nel primo caso il referendum non si può applicare alla nuova legge, nel secondo sì. Ebbene, in una decina di pagine piene di tecnicismi e ragionamenti ermeneutici non molto diversi da quelli che Manzoni mise in bocca all’Azzeccagarbugli, i membri della Commissione di Garanzia, con un solo parere dissenziente, sono giunti a questa conclusione: il quesito del referendum potrebbe benissimo funzionare anche sulla nuova legge, perché questa mantiene effettivamente intatta l’impostazione della precedente, ma, ed è qui che scatta tra gli animalisti la sensazione di essere vittime di una ben orchestrata presa in giro, questa normativa non può essere sottoposta a referendum regionale perché è a tutti gli effetti una legge statale.
Le ragioni del sì e quelle del no
Passando alle questioni che riguardano la caccia, il quadro appare più definito. Qui non ci sono dubbi di interpretazione, le posizioni di chi era per il sì e chi per il no sono sempre state chiarissime. Da una parte il Comitato promotore parlava della necessità di “un ridimensionamento della caccia proteggendo specie a rischio di estinzione o di scarso interesse venatorio, restituendo ai cittadini la possibilità di frequentare la domenica in sicurezza boschi, campagne, monti, aree naturali della nostra regione”. Mentre il Comitato Nazionale Caccia e Natura (Cncn) rispondeva sostenendo che “negli ultimi sette anni in Piemonte si sono registrati complessivamente 21 incidenti, ovvero tre all’anno, e non si può certo parlare di un dato allarmante. Sul piano della conservazione delle specie l’ultimo rapporto della Lipu mostra che in Italia le specie più a rischio sono gli uccelli che abitano in zone agricole e non le specie cacciabili, che invece vantano quasi ovunque popolazioni in aumento”.
Punti di vista difficilmente conciliabili. Eppure un tentativo di dialogo potrebbe partire proprio dallo scontento provocato dalla nuova normativa piemontese. “La beffa è che la legge nazionale subentrata adesso è ancora più permissiva di quella che volevamo riformare. Le specie cacciabili sono il doppio di quelle previste nella precedente legge regionale” dice Piana del Comitato promotore del referendum. Il giudizio negativo sulla legge è condiviso anche da Osvaldo Veneziano, presidente di Arcicaccia: “Questa legge non può reggere a lungo perché la gestione della fauna selvatica è demandata alle regioni. Bisogna sperare che la nuova legge di cui il Piemonte dovrà presto dotarsi, rispetti rigorosamente le indicazioni europee e i criteri scientifici dell’Ispra. Avere una normativa debole e incerta non fa bene a nessuno, né ai cacciatori, né agli animali. Ci auguriamo che il buon senso dei politici piemontesi eviti di varare provvedimenti che finiscono per ritorcersi contro i cacciatori come l’ingiustificato aumento di specie cacciabili che si tira dietro inevitabili sanzioni europee, o come i fantasiosi calendari venatori che attirano ricorsi al Tar bloccando di fatto l’attività dei cacciatori”. Come in effetti è già accaduto per le Marche, l’Abruzzo e la Liguria. Manteniamo gli occhi puntati sul Piemonte.
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